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Chimera: intervista alla regista del film Mitzi Peirone

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Grazie a BlueSwan Entertainment, abbiamo avuto l’opportunità di intervistare Mitzi Peirone, regista italiana di Chimera (Braid il titolo originale). Il film ha per protagoniste Madeline BrewerImogen WaterhouseSarah Hay ed è disponibile in home video e on demand. In bilico fra thriller psicologico, horror, mistero e psichedelia, Chimera è incentrato su due ragazze ricercate, che trovano riparo nella villa di un’amica mentalmente instabile. Giunte sul posto col fine di rapinare la donna, le due criminali finiscono in un torbido vortice di violenza, finzione e allucinazione, che mette a dura prova le loro certezze.

Mitzi Peirone ha esordito parlando di alcuni dei temi alla base di Chimera:

«Ho passato gli ultimi anni pensando a fare questo film, sperando che il resto poi sarà in discesa. Anche prima della pandemia, mi sono accorta che così non è, perché in questa industria tutti stiamo costantemente facendo un’audizione, dobbiamo costantemente dimostrare di essere in grado di lavorare, non importa quanti film facciamo. Quando stavo cercando di capire cosa fare della mia vita, una persona mi ha fatto una domanda veramente intelligente: Che dolore vuoi affrontare? Avere ogni giorno le stesse abitudini o affrontare l’incertezza?

Io non mi trovo a disagio nell’incertezza, nella difficoltà, nel caos, nel buio. Naturalmente, sto cercando di avere una visione razionale dello stato delle cose. Era già difficile prima fare la regista, senza parlare del fatto che sono una donna immigrata e giovane. Adesso c’è un altro livello di difficoltà, ma non mi sento scoraggiata, penso che chiunque non debba pensare alle difficoltà ma a farsi nutrire dallo stato delle cose. Le difficoltà e le sfide ci definiscono. Non temo questo momento, secondo me riusciremo a scrivere cose ancora più belle e profonde».

La regista ha proseguito parlando dell’utilizzo dei colori, soffermandosi sulla scelta del bianco e nero in una sequenza inquietante di Chimera:

«Ovviamente coi colori volevo creare qualcosa di molto fiabesco e cerebrale, e volevo che i colori fossero evidenziati, perché viviamo a metà fra il sogno e il ricordo. Anche quando Tilda prende le droghe, non è una questione di allucinazioni, ma più che altro del trauma che sta rinascendo. Come in una tragedia greca, la natura che le circonda diventa parte del loro stato d’animo.

Molte persone hanno pensato che quel bianco e nero fosse troppo. Per noi, proprio perché questa realtà è così eccessiva e barocca, volevo che i momenti di shock, quando le ragazze si rendono conto di cosa sta succedendo, fosse reso da un bianco e nero molto ruvido e reale. Come quando stai sognando e ti rendi conto che tutto ciò non è reale, ma poi la realtà del sogno ti avviluppa e ti risucchia di nuovo dentro».

Mitzi Peirone ha poi parlato dell’ispirazione per le tre protagoniste di Chimera:

«Sono tre parti di me. Ogni giorno mi sveglio come una persona diversa. Dafne è la persona che vuole più controllare la situazione; ha bisogno di essere madre, ma allo stesso tempo di avere altri che abbiano bisogno di lei: esiste solo in funzione delle altre persone. Tilda è l’eterna bambina, il personaggio che vuole essere adulto, ma in realtà si trova molto di più a suo agio non prendendosi nessuna responsabilità. Il Dottore rappresenta invece il bisogno di essere rispettati e ammirati. Tutte insieme compongono una persona sola. Io credo che ogni persona abbia questo contrasto: essere in controllo ma non volersi prendere responsabilità, voler essere ammirato ma allo stesso tempo retrarre da quella ambizione.

Per quanto la relazione delle protagoniste di Chimera sia tossica, sono comunque una famiglia. Preferiscono essere insieme in questo abbraccio malato, piuttosto che affrontare l’incertezza di quello che c’è fuori dalla casa. Lo spacciatore di droga o la polizia sono comunque pericoli fittizi. Noi rimaniamo intrappolati in queste case psicologiche perché abbiamo paura di rischiare, di perdere qualcosa che per quanto ci faccia stare male sappiamo cos’è. Alla fine, il succo di Chimera è che una persona può sognare per tutta la vita di diventare migliore. Le protagoniste vivono come metafora dell’incertezza fra uscire e restare nel nido».

Chimera

La regista ha successivamente spiegato il metodo con cui ha finanziato Chimera:

«Io sono partita da Torino per andare a New York a studiare teatro, senza per forza voler essere un’attrice, ma ho seguito il mio istinto. Poi ho studiato brevemente sceneggiatura, ma stavo già sviluppando Chimera. Non avevo contatti, non conoscevo nessuno. Durante quegli anni, andavano di moda soprattutto IndieGoGo e Kickstarter. Tutti andavano su queste piattaforme per chiedere fondi con finanziamenti non altissimi, attraverso magliette o altro.

Per me questo strumento non andava bene, perché al massimo si ottengono poche decine di migliaia di dollari, con cui non era possibile fare un film del livello che volevo io. Quindi nel 2015 ho conosciuto il CEO di una tech company, che mi stava spiegando gli albori del bitcoin e mi ha fatto vedere come si potevano raccogliere soldi, nel loro caso per la sfera tecnologica.

Ho pensato di applicare lo stesso metodo al finanziamento di un film, perché penso possa essere una vera risorsa per il cinema indipendente, che di solito ha idee originali e coraggiose ma non ha fondi. L’unica cosa che potevo fare era offrire un ritorno. Io ho chiesto 1.7 milioni di dollari in un tempo limitato di due settimane, perché ho pensato che sarebbe stato più intrigante per la gente. Prima del lancio della campagna ho fatto un sacco di conference call per parlare di Chimera e per parlare di questa idea rivoluzionaria per il cinema indipendente, offrendo però un ritorno del 30%. Ho trasformato così Chimera in un investimento, specificando che il genere horror è quello più redditizio e che il cinema indipendente delle donne è in ascesa. Ho spiegato il film in maniera quasi matematica e abbiamo raccolto quanto necessario, aggiungendo poi qualcosa attraverso il tax credit che offre la città di New York».

Un breve excursus sul panorama horror italiano:

«Ovviamente lo amo. Mi è piaciuto molto Suspiria di Luca Guadagnino, anche se sono una fan di Dario Argento. Penso che ci sia qualcosa di misterioso e occulto che pervade l’Italia e soprattutto la mia Torino. Credo che l’horror italiano sia uno dei migliori».

Mitzi Peirone si è soffermata sulla pianificazione del lavoro su Chimera:

«Avevo pianificato tutto, perché quando hai un budget stretto non puoi permetterti di improvvisare molto. Lo sapevo e avevo le idee chiare dal punto di vista estetico e della regia. Sono riuscita a trovare un direttore della fotografia che ha compreso il mio senso estetico e il mio gusto. Una volta che ci siamo capiti, abbiamo sviluppato un linguaggio specifico per Chimera, una sorta di mini Bibbia con tutti i riferimenti visivi. Una volta sul set sapevamo tutto. C’erano molte inquadrature delicate ed era un problema anche fare arrivare l’acqua o trovare il giusto sangue finto. Da questo punto di vista è come andare in guerra, devi essere preparata. La pre-produzione è stata fondamentale, ho passato 18 ore al giorno col customista, col direttore di fotografia, con lo scenografo, con l’assistente alla regia e coi produttore per fare in modo che una volta sul set le cose andassero lisce».

Queste le parole della regista sulle scelte musicali di Chimera:

«Io amo la musica in maniera folle. Non voglio darti una spiegazione precisa, ma trovo che ci sia una connessione fra la musica elettronica e quella sinfonica classica, perché sono entrambe un viaggio. La musica pop ti martella finché non ti rimane in testa, ma poi finisce lì. Non voglio assolutamente screditare la musica pop, ma secondo me se Mozart fosse vivo adesso, farebbe musica elettronica.

Per me la musica elettronica e la musica classica vanno più d’accordo col ritmo di Chimera. Ho messo il Barbiere di Siviglia e il Don Giovanni perché fanno parte della mia infanzia e della mia crescita artistica. Lo stesso metodo che ho utilizzato col direttore della fotografia Todd Banhazl l’ho applicato con il compositore Michael Gatt. Come c’erano Caravagglio e gli psichedelici, ci dovevano essere la musica classica e quella elettronica, le lenti sferiche di Brooklyn e le lenti anamorfiche da dipinto dentro la casa. Volevo che quel contrasto fosse chiaro, quindi ho scelto due cose apparentemente in antitesi».

Chimera

Mitzi Peirone ha poi approfondito il gioco di ruolo come dinamica narrativa di Chimera:

«Per me vale quello che hanno detto Pirandello, Platone, i buddisti, Shakespeare e anche Matrix: ogni persona ha più persone dentro, e lo scopo della vita è capire l’essenza della nostra anima. Le diverse personalità che assumiamo partono da un pensiero, da un’idea. Io penso di essere una regista e quindi mi comporto da tale, perché io ho concepito questa idea. I bambini che giocano lo fanno senza che nessuno gli dica niente. Fanno delle prove teatrali per la vita vera. In un certo senso non siamo diversi da loro, siamo ragazzini che stanno giocando a giochi da adulti, in cui continuiamo a interpretare dei ruoli. Ma parte tutto dalla testa, dallo sforzo psicologico, dalle nostre convinzioni.

Credo che l’immaginazione sia il vero motore delle nostre vite e dell’universo. La realtà non è come è, ma come la percepiamo noi. I nostri ricordi non sono organici, non ci ricordiamo la verità oggettiva, ma ci ricordiamo ciò che abbiamo patito o amato. Il gioco di ruolo inizia da bambini e non finisce mai. Per me i momenti di crisi esistenziali sono fulmini a ciel sereno, ma ci servono. Dobbiamo chiederci chi siamo e cosa stiamo facendo. Per cui l’idea della finzione, di credere in una realtà inventata in noi stessi, alla fine è la realtà. Qualunque cosa in cui crediamo, tranne la scienza, è stata inventata».

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Qualche cenno sulla scelta della location della casa delle tre protagoniste:

«I miei nonni vivevano a Boves, in provincia di Cuneo. Abbiamo ereditato una casa gigantesca, bellissima, dove ho passato buona parte della mia infanzia. Mia nonna, che si chiamava Mitzi come me, aveva come obiettivo quello di farci giocare. Ci stimolava, ci aiutava a travestirci e a perderci nei boschi. Ha amato farci crescere in questa sorta di Wonderland, e le devo tantissimo. Chimera è in parte ambientato in questa villa, e volevo che fosse decadente e allo stesso tempo mistica.

L’idea della location e della scenografia deriva da Gli insospettabili, una villa rimasta ancorata a un bisogno ancestrale di rimanere bambini. Volevo qualcosa di spettrale e allo stesso tempo fiabesco. Abbiamo visto molte case, che erano o troppo barocche o troppo serie, poi per fortuna abbiamo trovato quella casa sopra New York, che è la stessa casa dove hanno girato I Tenenbaum. Il bagno dove Petula si fa la barba è lo stesso in cui Luke Wilson si taglia le vene nel film di Wes Anderson; la vasca è la stessa in cui Margot si sdraia con la pelliccia e la sigaretta».

Chimera

Mitzi Peirone si è soffermata sulla scelta del titolo originale Braid, cioè treccia:

«Da un punto di vista freudiano, le ragazze sono una persona divisa in tre. Inoltre, il padre dell’ipnotismo si chiamava James Braid, che per primo aveva teorizzato di curare le psicosi in modo diverso dalla medicina tradizionale. Sono finita nel mondo dell’ipnotismo e l’ho trovato molto affascinante. Ancora, la mente detta la realtà intorno a noi. Braid, treccia, come tre ragazze intrecciate».

La regista ci ha poi dato qualche anticipazione sui suoi progetti futuri:

«Ho scritto un film di fantascienza in cui il mondo ha creato un microchip che permette di colmare il solco che abbiamo fra noi stessi e il cervello. Questo chip ti aiuta a bilanciare la serotonina o l’endocrina, aiutando le persone a calmarsi. Una sorta di assistenza medica personale, che in qualsiasi situazione ti dice cosa fare. Come in Her, una società rosea, immune allo squilibrio, come ne Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Questo è ambientato nel 2091, ma dal 2050 ci sono state migrazioni climatiche, con milioni di persone che hanno cercato di lasciare le zone troppo calde o aride che stanno cercando asilo in queste zone dove invece la civiltà sta sbocciando. Sono state create delle comunità sotterranee per questi migranti climatici, finché non vengono assegnati a una nazione e a una casa.

Abbiamo una società dei sotterranei che aspetta di risalire, poi il piano di sopra dove c’è una società perfetta e armoniosa. Seguiamo un giorno nella vita di una ragazza che si chiama Scarlett, quando arriva una sorta di update che va storto, i chip esplodono e paralizzano l’umanità dal collo in giù. Pochissime persone sopravvivono, e dai sotterranei risalgono le persone che stavano aspettando, assetate di sangue perché sono state ostracizzate. Scarlett e altre quattro persone devono capire perché si sono salvate e come sopravvivere in questo nuovo mondo. Il film si chiama Ultramundus e ha un incipit in cui si spiega come si è arrivati a quel punto. Io cerco di scrivere delle cose che mi spaventano, quindi per me il prossimo capitolo è sul cambiamento climatico e sulla migrazione.

Sto sviluppando anche una serie, che si chiama The Human Overdose, in cui il mondo ha esaurito le proprie risorse. Soltanto l’1% può procreare e a 70 anni vieni espulso nel deserto. Una Terra che sembra Marte, lacerata, in cui si è arrivati a leggi draconiane per poter sopravvivere. Troppe persone, troppa avidità, per un pianeta che inevitabilmente si esaurirà. Già adesso stiamo vivendo le conseguenze del cambiamento climatico, quindi mi sembra giusto parlarne».

Mitzi Peirone ha parlato delle sue influenze:

«Personalmente sono indecisa se fare ancora un film horror. Uno dei miei horror preferiti degli ultimi anni è Hereditary – Le radici del male di Ari Aster, film sul satanismo, ma chiaramente filosofico e psicologico. Chimera non lo considero un horror, ma un thriller psicologico. Amo la fantascienza e sento una vocazione a parlare di cose che mi preoccupano. Penso che un regista possa utilizzare i propri strumenti per aprire una conversazione. La fantascienza mi intriga particolarmente perché si può parlare dei problemi del mondo corrente aprendo un dibattito su come sistemarli».

In conclusione, una breve considerazione sulla condizione femminile, con particolare enfasi sull’ascesa delle registe:

«Perché non prima? È un peccato che il mondo si sia perso le registe donne per tutto questo tempo, perché penso che la donna sul set, la donna leader, la donna in comando, salverà il mondo. Noi dal punto di vista genetico e biologico siamo in grado di coinvolgere e nutrire chiunque. Per me le persone sul set sono la mia famiglia, che dovrò dirigere con determinazione e passione. non è per caso che le nazioni che hanno fatto bene col Coronavirus sono guidate da donne. Abbiamo più bisogno di donne ovunque, donne al potere. Soprattutto il genere horror le donne lo capiscono, patiscono l’horror ogni giorno, più degli uomini».

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Sweat: l’intervista a Magnus von Horn e Magdalena Kolesnik

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Sweat

Cinema e social sembrano due mondi che vivono agli antipodi, due poli opposti, due versioni, due modi di narrare totalmente ambivalenti. Eppure i social media ogni giorno cambiano forma, e da mero strumento intrattenitivo, che nasce e muore sulle piattaforme più diverse, sta diventando e assumendo caratteristiche sempre più simili al cinema, nel suo modo di raccontare, di sperimentare, attraverso molecole di realtà, pillole di autofiction, proprio come lo intendeva Serge Doubrovsky, avventure del linguaggio, e del quotidiano. Raccontare la propria vita attraverso uno schermo verticale sembra essere un modo spontaneo di porsi nella propria narrazione, poco strategico, la possibilità di condividere tutto in maniera rude, anche naturale, senza infingimenti. Eppure il regista Magnus Von Horn ha realizzato una riflessione precisa ed efficace sulle contraddizioni e le libertà di un’esistenza trascorsa e spesa sui social media. 

La nostra recensione di Sweat 

Sweat

Sweat è l’ultimo lavoro del regista svedese che ha diretto Magdalena Koleśnik nel ruolo dell’influencer Sylwia Zajac, la cui lunga coda di cavallo bionda, gli occhi azzurri e il corpo tonico sono tutto ciò che ci si aspetterebbe di vedere da un’influencer. Sylwia è una fitness influncer – una sorta di erede, epigono di Jane Fonda e del suo celebre Workout – che conduce frequenti lezioni di allenamento attraverso il suo profilo Instagram, che ha più di 600mila followers.

Durante le sue lezioni di fitness sprona e incita i suoi fan, ogni giorno svela i suoi segreti per rimanere in forma, con i suoi regolari post online, in cui mostra prodotti del suo sponsor, cerca di mantenere i suoi follower sempre motivati ​​ad essere in forma come lei. Sui social conduce una vita impeccabile, sempre perfetta. Il suo successo però ha abissi e ostacoli ben visibili per lei. Nonostante la persona brillante che si costringe ad essere online, c’è una tristezza sempiterna dentro i suoi occhi: Sylwia è una persona sola, e le conseguenze del suo perpetuo esibizionismo emotivo spingono lei a fare i conti con la sua fragilità, con la sua vita al di là dei riflettori dei social media e lo stile di vita di un’influencer.

Sweat: l’intervista al regista Magnus von Horn e Magdalena Kolesnik

Abbiamo intervistato il regista Magnus Von Horn e la protagonista Magdalena Koleśnik che ci hanno parlato del film e del personaggio di Sylwia, che ci permette di entrare nella – vera – vita privata di un’influencer. 

Ispirazione

Magnus Von Horn: Ci sono state diverse ispirazioni che hanno aiutato a costruire la storia, diverse, ma il film non è basato su nessuno di realmente esistente, abbiamo voluto creare il personaggio di Sylwia non basandoci espressamente su qualcuno di preciso. 

Sweat: la creazione del personaggio 

Magdalena Koleśnik: Ho lavorato per un anno come allenatrice, ho provato a ricreare il mio corpo e farlo sembrare come una fitness trainer, e ho avuto tantissime conversazioni con Magnus in cui abbiamo parlato di Sylwia, abbiamo costruito tutta la sua storia, il suo passato, il suo futuro, per avere una visione ampia della sua figura. Ho iniziato a lavorare per avvicinarmi al personaggio e ho iniziato a notare cose diverse nella realtà che potevano ispirarmi. Abbiamo fatto molte ricerche sui social media, ho aperto il mio primo profilo sui social, Instagram, e ho anche fatto work out sui social media, per capire al meglio come essere una fitness trainer, come essere un’influencer, come essere una persona che ispira le persone. 

Social media, un vero strumento narrativo?

Magnus Von Horn: Si, penso che lo siano. È un modo molto di interessante perché non è una narrazione tradizionale, è un modo davvero vicino alla vita di narrare, una delle cose che mi hanno ispirato di più per Sweat è la narrazione che nasce nelle storie su Instagram, su Snapchat. In quel caso non pensi di creare una narrazione ma sei quella narrazione, attraverso il blog, o condividendo parte della tua vita di tutti i giorni, quel tipo di narrazione è davvero un’ispirazione per me. Certe volte queste narrazioni sono più interessanti, quando cerchi di pensare alle storie, alla loro struttura, penso che la struttura esiste nel modo naturale in cui inconsciamente la puoi creare, ad esempio nel feed di Instagram o nelle storie. 

L’evoluzione del lavoro dell’influncer 

Magnus Von Horn: Penso che le influencer continueranno ad esistere finché le persone le vorranno seguire o vorranno contribuire alla loro fama, al loro lavoro, così come il cinema sopravviverà finché ci saranno persone che andranno in sala e guarderanno film. Io non ho una premonizione riguardante il futuro di questo tipo di fenomeno, anche perché quel che diventa trend sui social media è sempre una sorpresa per me. Due anni fa, un anno fa, se qualcuno mi avesse detto che Tiktok avrebbe dominato con le sue challenges, con le sue danze, avrei pensato che quel pensiero sarebbe stato veramente circostanziale, strano. 

Magdalena Koleśnik: È imprevedibile, penso che diventeremo sempre più virtuali, sono curiosa di vedere come potremmo diventare davvero creature sempre più virtuali; è un poco spaventoso, ma è il futuro, è come il futuro potrebbe essere, non voglio avere paura di qualcosa che probabilmente succederà. 

Sweat sarebbe stato diverso se fosse stato ambientato in un altro paese?

Magnus Von Horn: Penso sarebbe stato simile ma diverso, di paese in paese. Dipende dalla cultura, dalla politica, da quel che muove le persone. Se devo paragonare Svezia e Polonia, sono davvero paesi diversi, fatti sì da persone ma che evidentemente sono diverse, quindi anche i social e il loro impatto è differente, come anche può esserlo in Italia, in Germania. Lo si può percepire ne sono sicuro, si può analizzare, farne una statistica su quanti post ad esempio sul cibo vengono condivisi in Italia rispetto ad altri paesi. Se prendiamo ad esempio Svezia e Polonia, questo discorso è molto connesso anche a quel che gli influencer fanno: in Polonia ci sono molti “playboy sexy”, c’è una ipersessualizzazione e un male gaze imperante, mentre in Svezia questo tipo di influencer non va, non funzionerebbe.

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Tim Burton incontra il pubblico della Festa del Cinema di Roma

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Tim Burton

Fra i tanti eventi che hanno segnato una convincente edizione della Festa del Cinema di Roma, c’è sicuramente l’incontro del pubblico dell’Auditorium con Tim Burton. Il regista statunitense ha anche ricevuto il Premio alla Carriera della manifestazione dalle mani di Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo e Gabriella Pescucci, che hanno lavorato più volte insieme a lui, contribuendo con i loro costumi e con le loro scenografie al successo delle sue visionarie opere. Come da tradizione della Festa, Tim Burton ha dialogato con il direttore artistico Antonio Monda e con il professore di cinema della Columbia University Richard Peña, ripercorrendo la sua vita e la sua carriera.

Tim Burton

Qual è il primo film visto da Tim Burton? A rispondere è lo stesso regista:

Gli argonauti di Don Chaffey, film indimenticabile che vidi in una sala in California. Una sala straordinaria, dove sembrava di stare all’interno di una conchiglia. Ricordo le scene di combattimento con gli scheletri. Questa è stata la mia prima esperienza al cinema.

Tim Burton ha parlato della sua esperienza nell’animazione Disney a inizio carriera:

Orribile. Si tratta dei miei giorni più bui. C’erano moltissime persone di talento e creatività, impegnate in film come Red e Toby nemiciamici e The Black Hole – Il buco nero, che richiedevano 10 anni di produzione. Figure come Brad Bird e John Lasseter, che alla Pixar hanno dimostrato tutto il loro talento ma lì non avevano spazio. Ero veramente pessimo nel lavoro dell’animazione. Molti sottolineavano che i miei personaggi avevano l’aspetto di qualcuno che è stato messo sotto da una macchina. Per fortuna ero così negato che sono passato a fare altre cose.

Tim Burton ha parlato della sua profonda ammirazione per Mario Bava:

Negli anni ’80 andai a un festival del film horror a Los Angeles, una maratona di 48 ore di fila. A volte durante questi eventi si tende ad assopirsi, ma quando vidi La maschera del demonio di Mario Bava per me fu come essere in un sogno, o più spesso un incubo. Pochi sono riusciti a catturare questo stato onirico, oltre a lui anche Federico Fellini e Dario Argento.

Il regista ha parlato del ruolo dell’art director nei suoi film:

Ho avuto la grande fortuna di lavorare con straordinari artisti. Per me la scenografia e la musica fanno parte dei film, sono veri e propri personaggi. Questo vale anche per i costumi, dal momento che ho avuto la fortuna di lavorare con artisti come Dante Ferretti. I grandi con la loro opera danno un altro personaggio al film, che così diventa il mezzo visivo per eccellenza. I miei disegni sono molti primitivi, per me me gli artisti sono fonti di ispirazione.

Una scena di Edward mani di forbice ha permesso a Tim Burton un excursus sul suo processo creativo:

Rappresenta la mia infanzia. Ho sempre amato le fiabe, ero così. Le fiabe permettono di esplorare veri sentimenti aumentandone l’intensità. Io non mi reputo uno sceneggiatore, parto dalle idee e cerco di stabilire rapporti di collaborazione con persone abili in tal senso. Nel caso di Nightmare Before Christmas, non sono partito da materiale mio, ma era comunque qualcosa che mi permetteva di riconoscermi in alcuni elementi. Cerco sempre di trovare qualcosa con cui rapportarmi, aprendomi alle collaborazioni. Un po’ come quando lavoravo in Disney all’inizio, dove si lanciavano spunti e poi ci si ragionava su insieme.

Il regista ha confermato una voce sulla sua ispirazione per Mars Attacks!:

Mettiamo da parte i grandi romanzi. Sono partito dalla carte che avvolgevano le gomme da masticare. Ho avuto un’infanzia un po’ contorta.

Tim Burton ha fatto un accenno al suo rapporto con gli studios:

Io ho fatto soltanto film con gli studios. Sono stato in una posizione un po’ insolita, perché nonostante questo sono sempre riuscito a fare ciò che volevo fare, e non ho ancora capito come. Per fortuna non hanno mai veramente capito cosa stessi facendo.

Il regista ha parlato del suo Batman, considerato molto dark:

C’è molta confusione su questo discorso. C’era chi diceva che il mio Batman fosse molto più dark, mentre altri dicevano il contrario. Ricordo che McDonald’s non era contenta, perché dalla bocca del Pinguino usciva una roba nera e non sapevano come regolarsi con gli happy meal.

Una scena di Big Fish è servita da spunto di riflessione sul budget di un film e sulle proiezioni di prova:

Il cinema è un’opera collettiva che vede la partecipazione di tante figure diverse da loro. Quando sei un pittore lavori da solo, ma il cinema è una fonte collettiva di gioia. Che il film sia a budget limitato o a budget enorme, pensi sempre che non ne hai abbastanza. Ci sono tanti elementi impalpabili e intangibili, ma non mi sono mai sentito limitato. Le proiezioni di prova sono sempre esperienze che incutono grande terrore, perché comportano anche riempire dei moduli nei quali al pubblico viene chiesto il personaggio preferito. Alla fine se ne fa un uso quasi sempre distorto, è molto difficile rendersi conto di quella che è la percezione del pubblico. Io sono sempre terrorizzato dal rivedere i miei film, vorrei godermi la visione ma non ce la faccio.

Per Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, Tim Burton ha collaborato con un grande della musica americana come Stephen Sondheim:

Stephen è geniale, fu un’esperienza difficile fargli vedere il film. Per fortuna gli piacque, cosa che mi riempì di gioia. È una miscela di horror, commedia e musical. Era molto preoccupato perché nessuno degli attori era un cantante. Io però non lo ritenni un problema, sapevo di essere in buone mani con quel gruppo di attori. È stato di grande sostegno, abbiamo cambiato un po’ di cose ma è andata bene. Devo dire che è stato estremamente divertente: anche se può sembrare assurdo, per me è stato come fare un film muto. Mi sono divertito più con questo film che con molti altri.

Una scena di Big Eyes ha portato a una riflessione su questo recente film di Tim Burton:

Mi ricordo che i quadri di Margaret Keane si trovavano in tutte le case. Io li ho sempre trovati inquietanti, mi chiedevo come mai potesse piacere tanto questo tipo di quadro. Questo ci porta a riflettere sul senso dell’arte. Tutti in qualche modo siamo toccati in modo diverso da quello che vediamo. Per me erano inquietanti, altri li trovavano così carini da appenderli alle mura delle camere dei bambini. Questo è il mestiere dell’artista, ad alcuni piaci e ad altri no.

Il regista ha particolarmente apprezzato la mostra su di lui organizzata dal MOMA nel 2009:

La mostra al MOMA è stata una sorpresa straordinaria. Io sono un pessimo archivista, quindi si è trattato di frugare nei cassetti e trovare queste opere. Un’esperienza sorprendente e indimenticabile. Sorprese come queste mi riempiono di gioia. Questa tra l’altro è stata la mostra che in assoluto ha avuto più successo. Io non mi reputo un artista, però fa pensare che le opere d’arte riescano a ispirare altre persone.

L’ultima sequenza proposta è stata di Ed Wood, il film di Tim Burton che ci dice che anche il peggiore regista di tutti i tempi è a suo modo un artista:

Con Plan 9 from Outer Space, Ed pensava di girare Star Wars. Aveva una passione tale che ritroviamo anche nei suoi diari, in cui si reputa fra i più grandi. Questo ci riporta al discorso di prima su che cos’è l’arte.

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Tim Burton abbraccia Dante Ferretti

Tim Burton

Tim Burton ringrazia Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo e Gabriella Pescucci per il premio

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Interviste

Petite Maman: intervista alla regista del film Céline Sciamma

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Petite Maman

Applaudito all’ultimo Festival di Berlino, Petite Maman è il nuovo attesissimo film di Céline Sciamma, dopo il successo planetario di Ritratto della giovane in fiamme. Da sempre attenta al mondo dei giovanissimi e al tema dell’identità femminile, Sciamma torna alle atmosfere di Tomboy, uno dei suoi film più amati, dimostrando ancora una volta una sensibilità fuori dal comune. 

Petite Maman ha per protagonista Nelly, una bambina di otto anni che dopo la morte della nonna passa qualche giorno nella casa di campagna dove è cresciuta la madre, Marion. Nelly esplora la casa e il bosco che la circonda, dove sua madre giocava da bambina e dove aveva costruito la casetta di legno di cui Nelly aveva sentito tanto parlare. Dopo che la madre va via all’improvviso, Nelly incontra nel bosco una bambina della sua età che si chiama proprio Marion e sta costruendo una casetta di legno.

Distribuito in Italia da Teodora Film e MUBI, Petite Maman è stato presentato in anteprima durante Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma, occasione che ci ha permesso di incontrare e parlare con la regista Céline Sciamma proprio del suo ultimo lavoro e delle sue ispirazioni. 

Petite Maman: l’intervista alla regista del film, Céline Sciamma

Céline Sciamma

Non c’è magia, non ci sono portali che aprono lo spazio-tempo ma solo uno stacco di montaggio che ci conduce in un’altra dimensione. Hai pensato fin dall’inizio a questa modalità di contrapporre due dimensioni differenti? 

Quando ho iniziato a scrivere per questo film, e quando poi ho terminato la prima bozza della sceneggiatura, mi sono resa conto che questo film è un vero e proprio viaggio nel tempo. Allora mi sono cominciata a porre delle domande. E mi sono resa conto anche che non volevo che ci fosse una macchina del tempo all’interno del film, volevo che l’unico aspetto magico fosse quello che dà il cinema. Quando si ha un’idea la cosa più importante è rispettarla, quindi mi sono detta che non volevo avere paura; questa è stata la mia intenzione iniziale, la voglio rispettare, voglio resistere alla tentazione delle convenzioni. Ho voluto che questo cinema rispecchiasse quello che io definisco una sorta di realismo magico, un vero e proprio genere cinematografico, e ho voluto ricreare questa atmosfera di magia primitiva. 

C’è una grande cooperazione nel film tra ragazze e tra generazioni diverse, quanto ha lavorato per favorire questo? 

Questa è un po’ l’idea che combina l’aspetto gioioso e l’aspetto politico del film, che molto spesso vanno di pari passo. L’idea era di eliminare le gerarchie, creare una sorta di equilibrio tra quella che è una madre e quella che è una figlia. Ed è proprio per questo che ho scelto due sorelle; ho pensato tra me e me, ma se io incontrassi mia madre all’età di otto anni potrebbe essere mia sorella! Ho cercato di passare da quella che è un’idea di genealogia verticale ad una orizzontale, ed è questo che ha portato appunto a questo aspetto della solidarietà, della sorellanza, ed è in questo modo che ho cercato di superare la visione di duo, madre e figlia, fino ad arrivare a un vero e proprio trio, e ho cercato di focalizzarmi su questo ruolo del trio nella storia: madre, figlia e la nonna, che è anche molto importante. 

Ritorna il tema dell’infanzia e lo sguardo dei bambini. I bambini possono essere un nuovo pubblico di riferimento? Ci sono dei punti di contatto tra lo sguardo dei bambini e lo sguardo delle donne sul mondo? 

Volevo ricreare al cinema questo sguardo sia femminile che infantile, in fondo si tratta di personaggi che non riescono quasi mai a dimostrare o a vivere quella che è la loro integrale individualità. I bambini sono un pubblico che mi interessa molto, non hanno pressione culturale, e con questo pubblico, che è interessantissimo, molto moderno, puoi essere poetica, inventiva. 

Quando hai deciso di fare questo film, avevi dei riferimenti del cinema precedente che hai rincorso? 

Ho pensato molto al cinema d’animazione giapponese, come Miyazaki, e questo film che ha una connotazione molto pittorica, con l’autunno, i colori, fa molto riferimento a questo cinema d’animazione. Volevo citare un altro film che a mio modesto parere è stato un po’ sottovalutato che è Big, con Tom Hanks, io l’ho visto da bambina, l’ho trovato un film davvero sovversivo, e mi ha colpito molto. 

La rappresentazione della maternità al cinema ha subito un cambiamento molto importante, vediamo storie di maternità non performativa, non conforme. Cosa ne pensi di questa nuova ondata? 

Me ne rallegro in qualche modo. Io dico sempre che il cinema ha un impatto gigantesco sulla vita delle persone, il fatto che vi siano questi film significa che si è autorizzati anche a fare qualcosa di diverso. 

Céline Sciamma

Ascoltiamo abbastanza i bambini? 

Penso che oggi come oggi i bambini, come la gioventù, siano davvero in prima linea nelle lotte, nel portare avanti nuove idee, lo vediamo per esempio nel caso del cambiamento climatico. Eppure abbiamo visto in questi anni che in qualche modo l’infanzia e i giovani vengono considerati dei cittadini di seconda classe, come se non avessero delle idee politiche, in realtà dipende tutto dalla struttura che li accolgono, che sia la famiglia, la scuola, la società. Ovviamente io lavoro con i bambini, in questo caso con queste due ragazze, quindi mi sono resa conto di quanto siano capaci di individualità, di impegno. I giovani, i bambini sono i portati di nuove idee, ma non per questo noi non dobbiamo lottare perché queste idee prevalgano, i bambini spesso non hanno il peso politico per portare avanti queste idee: siamo noi che dobbiamo farcene portavoce. 

Il suo cinema vive di molte suggestioni, come concilia il suo desiderio di trasmettere un messaggio politico con la libertà interpretativa che lascia allo spettatore? 

In fondo non ho un messaggio politico preciso da dare, piuttosto mi baso sulle sensazioni. Non c’è un messaggio, cerco di mettere delle idee, delle idee che poi voglio far stare insieme, più idee ci sono insieme più il film diventa politico; per me è importante che ci sia questa ricchezza di possibilità che ti porta a vivere maggiormente la vita, che ti dà più possibilità di interpretazione, quindi queste idee devono danzare insieme, e lo devono fare in maniera davvero sensuale. Sensuale per questo, perché c’è quest’idea del desiderio, un’idea che dà voglia di avere altre idee. 

Io credo sempre che i cambiamenti arrivano dove sono più forti i momenti di resistenza. Dove più c’è oppressione c’è anche più forza di resistenza, forse è anche questo il motivo per cui il cinema borghese, e il cinema più sentimentale, innova poco.

Si parla delle paure dei bambini nel film: da bambina aveva paura di qualcosa?

Avevo paura di tutto praticamente, tanti degli elementi del film ricordano molto della mia infanzia, per esempio gli spazi sono ispirati a ricordi della mia infanzia: l’esterno è proprio girato nella città in cui sono cresciuta. Anche la casa che è costruita proprio in studio è basata proprio su ricordi, e ha molte caratteristiche di quelle che erano le case delle mie nonne. Ho cercato di ricreare una sorta di intimità dello spazio, dell’infanzia stessa, ed è uno spazio e un tempo che non ha una connotazione precisa, io volevo che un bambino degli anni ’50 del secolo scorso e un bambino del 2021 potessero vivere e riappropriarsi di questa storia. L’idea era di lavorare su queste paure, paure dell’infanzia, una delle paure più forti che pervade questo film è la tristezza degli adulti. C’è un unico mostro, questa pantera nera, che simboleggia un po’ tutte le nostre paure, e poi volevo che fosse un’ombra fabbricata da un essere umano, perché i bambini spesso credono che queste paure, questi mostri siano gli esseri umani, i grandi che entrano in scena. 

Com’è stato girare un film durante la pandemia? 

Sicuramente ci sono molti protocolli da seguire e da integrare durante la lavorazione. Da questo punto di vista questo film ha creato meno problemi nel senso che è stato comunque girato in studio, pochi attori, pochi livelli di interazione fisica. Tuttavia è stato comunque qualcosa di diverso dal solito, io dico spesso che girare un film è una sorta di lockdown personale in qualche modo, e attraverso questo mondo vuoto in realtà riesci a ricreare qualcosa. Questa volta il mondo era veramente vuoto, il mondo intorno a noi; quindi quando eravamo li davanti alla cinepresa, il solo fatto di veder togliere una mascherina, di vedere un volto, sicuramente è stata un’esperienza di grande tensione emotiva. Nel film ci sono tante immagini che sono cariche di questi momenti: proprio questo film così atemporale in realtà è così caratterizzato del momento che abbiamo attraversato. 

Il cinema può essere uno spazio sicuro? In cui creare intimità e sorellanza? 

Io ho fatto dei film in questo modo, ma ho fatto anche altri film per vivere questo sogno, questa immagine, l’idea di poter ricreare questa comunità fraterna: è un’utopia del cinema. Si fanno dei film per vivere determinate idee, oltre che portarle nel mondo. 

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