

Interviste
American Woman: l’intervista al regista Jake Scott
American Woman è un film del 2018 diretto da Jake Scott, scritto da Brad Ingelsby e interpretato da Sienna Miller, Aaron Paul e Christina Hendricks, e presentato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival. Abbiamo avuto l’opportunità di parlare del film con il regista, in occasione della consegna del premio alla Miglior Regia del Milan International Film Festival.
L’intervista a Jake Scott è stata introdotta da una domanda sull’ispirazione di American Woman e sugli eventi che hanno generato la sceneggiatura.
La sceneggiatura di Brad Ingelsby è basata su un fatto di cronaca, una vicenda che ha coinvolto una donna del sud della California la cui figlia è stata uccisa. In seguito, quando il rapitore è stato scovato, e anche durante il processo, questa donna affermava di voler incontrare l’assassino della figlia per avere delle risposte. Da questi elementi, originariamente, l’ispirazione è sovvenuta. Lessi la sceneggiatura e, per alcune ragioni, mi sono identificato in questa donna; è come se l’avessi messa a fuoco, sia dentro che fuori la pagina. Sicuramente tra le mie ispirazioni filmiche c’è il cinema di Cassavetes come anche Alice non vive più qui di Martin Scorsese. Sono stati una grande ispirazione per me.
Jake Scott in seguito ha parlato del suo rapporto con il cast.
Eravamo come una famiglia; è stata una componente molto importante, non solo perché American Woman è la storia di un individuo tanto quanto la storia di una famiglia, ma soprattutto perché è stato girato consequenzialmente e Sienna Miller ha dovuto attraversare tutti gli stati emotivi. Il feeling sul set era bello, era come stare in famiglia, tra amici, e la location scelta per il film era cosi nella realtà, quindi abbiamo trascorso tanto tempo assieme a partire dalle prove. Questo sicuramente ha creato un senso di realtà, di realismo che è ben visibile nel film.
Il regista, parlando delle attrici del suo film e di Sienna Miller, ha spiegato l’estetica di American Woman e il suo rapporto con il cinema tradizionale americano.
Sono cresciuto in Inghilterra, quindi il mio rapporto con quel tipo di cinema americano, tipo Cassavetes, Scorsese, sono stati una grande ispirazione. In questo film, il personaggio di Sienna Miller è uno spirito gioioso, è una vela che si agita, una lottatrice, resiliente, ha la pelle dura, ma è vulnerabile. Mentre sua sorella, interpretata da Christina Hendricks, è l’ancora. Per me American Woman è un film sull’amore e sul forte legame tra due sorelle. Il film si sviluppa nell’arco di undici anni. In seguito a numerosi studi realizzati per capire quali sono i cambiamenti che trasformano il corpo di una donna, in questo arco di tempo, ho scoperto che, al di là della comparsa di qualche ruga, oppure elementi come il taglio dei capelli, non ci sono grandi stravolgimenti, e io per primo non volevo trasformare la narrazione con grosse rivoluzioni visive.
American Woman: l’intervista al regista Jake Scott
Cercavo un modo per mostrare i cambiamenti delle stagioni; per questo è servito molto mostrare il cielo. Il cielo è qualcosa che guardo molto. Quando lei trova il luogo dove è morta la figlia, in quel posto il personaggio di Sienna Miller guarda il cielo, perché è la connessione che le era rimasta con la figlia. American Woman è un dramma domestico, un racconto sulla classe operaia della Pennsylvania, di conseguenza ci sono tante location che appartengono alla quotidianità di ogni giorno, e il cielo in questo senso è un elemento che si inserisce come qualcosa di più poetico, di metafisico.
Jake Scott ha poi discusso della costruzione del personaggio principale e della produzione molto discutibile del suo film.
Con Sienna abbiamo fatto tanto lavoro cercando di definire l’arco evolutivo del suo personaggio, ragionando di cinque momenti e passaggi del suo personaggio all’interno del film, e ragionando anche molto sui movimenti, sui gesti. Nel primo atto lei si muove molto, è molto caotica, febbrile. Quando la figlia scompare diventa una vela che si agita; dopo anni la troviamo con i capelli tagliati, sicuramente diversa.
È un personaggio che cambia, un personaggio con un ritmo a cui abbiamo dato una direzione precisa, anche dal punto di vista fisico, con una sua dimensione precisa. All’interno di American Woman si osserva la crescita di una donna, una donna che matura, che diventa forte, stoica, e si lascia il suo caos alle spalle. Quando ho conosciuto Sienna ho capito subito che sarebbe stata lei Debra, dopo averla vista in American Sniper ma soprattutto dopo averla incontrata in un bar per parlarle del ruolo. Ricordo che erano le quattro di pomeriggio, lei entrò urtando delle persone, facendo anche cadere delle cose, poi una volta seduta ha ordinato del vino.
Jake Scott: “American Woman è un dramma domestico, un racconto sulla classe operaia della Pennsylvania”
Il titolo originale del film era The Burning Woman, un titolo che io amo. Ma il film, secondo i produttori, doveva essere chiamato American Woman, che io odio perché è generico, perché non rappresenta quello che è il film nella sua interezza. Quando facevamo i test screening in America si è generata molta confusione sul film perché la critica affermò che il titolo originale non rappresentava un thriller. Ma infatti non è un thriller! Quando eravamo in pre-produzione uscì Tre manifesti a Ebbing, Missouri, che è un film bellissimo, che è la stessa storia di American Woman ma con un diverso approccio.
American Woman come titolo non riflette quello che stavo facendo e soprattutto non riflette quello che credo. Penso che la famiglia disfunzionale, il dolore e il lutto siano cose universali. Penso che la vita può essere difficile e bellissima, è un’insegnante. Io sono fiero e orgoglioso degli attori, della storia e del messaggio che trasmette. Penso che il film sia stato scoraggiato e distrutto dalla promozione in America, non ci sono stati investimenti in questo senso, si poteva avere e fare molto più per quanto concerne l’audience. Inoltre mi ha sconcertato che Sienna non sia stata riconosciuta per il suo lavoro e per la sua bravura.
Il regista ha concluso l’intervista raccontando un aneddoto disturbante avvenuto sul set.
Vi racconto una storia. Stavo realizzando questo film, circa tre anni fa, prima del movimento Me Too, stavamo girando una scena in cui Sienna Miller è in un motel in lingerie, era una scena lunga. Due produttori si sono presentati sul set, da New York, interessati unicamente nel vedere Sienna in intimo, erano venuti solo a fare quello. Abbiamo girato molto, ma molte scene le ho tagliate perché alcune erano troppo spinte e viravano il senso del film. Sul set c’era una tendenza nel vedere certi aspetti della donna in maniera scontata e poco elegante.
Questi produttori spingevano in questa direzione, dicevano che il personaggio maschile in scena non si stesse divertendo abbastanza. Per me era disgustoso. Ho deciso di tagliare la scena fino al momento in cui lei indossa questa lingerie, senza mostrare altro del girato conseguente. Il motivo per cui ho tagliato molte scene è perché per me non erano importanti. Il personaggio di Sienna Miller, Debra, è una lottatrice, è una guerriera, porta avanti con orgoglio tutto quello che fa. Questo è il senso del film e quello che conta.
Jake Scott ha aggiunto che al momento sta lavorando a un film horror, che avrebbe dovuto girare a Cortina. Un film con una donna al centro della storia.
American Woman è disponibile on demand su Chili.
Interviste
Sweat: l’intervista a Magnus von Horn e Magdalena Kolesnik

Cinema e social sembrano due mondi che vivono agli antipodi, due poli opposti, due versioni, due modi di narrare totalmente ambivalenti. Eppure i social media ogni giorno cambiano forma, e da mero strumento intrattenitivo, che nasce e muore sulle piattaforme più diverse, sta diventando e assumendo caratteristiche sempre più simili al cinema, nel suo modo di raccontare, di sperimentare, attraverso molecole di realtà, pillole di autofiction, proprio come lo intendeva Serge Doubrovsky, avventure del linguaggio, e del quotidiano. Raccontare la propria vita attraverso uno schermo verticale sembra essere un modo spontaneo di porsi nella propria narrazione, poco strategico, la possibilità di condividere tutto in maniera rude, anche naturale, senza infingimenti. Eppure il regista Magnus Von Horn ha realizzato una riflessione precisa ed efficace sulle contraddizioni e le libertà di un’esistenza trascorsa e spesa sui social media.
La nostra recensione di Sweat
Sweat è l’ultimo lavoro del regista svedese che ha diretto Magdalena Koleśnik nel ruolo dell’influencer Sylwia Zajac, la cui lunga coda di cavallo bionda, gli occhi azzurri e il corpo tonico sono tutto ciò che ci si aspetterebbe di vedere da un’influencer. Sylwia è una fitness influncer – una sorta di erede, epigono di Jane Fonda e del suo celebre Workout – che conduce frequenti lezioni di allenamento attraverso il suo profilo Instagram, che ha più di 600mila followers.
Durante le sue lezioni di fitness sprona e incita i suoi fan, ogni giorno svela i suoi segreti per rimanere in forma, con i suoi regolari post online, in cui mostra prodotti del suo sponsor, cerca di mantenere i suoi follower sempre motivati ad essere in forma come lei. Sui social conduce una vita impeccabile, sempre perfetta. Il suo successo però ha abissi e ostacoli ben visibili per lei. Nonostante la persona brillante che si costringe ad essere online, c’è una tristezza sempiterna dentro i suoi occhi: Sylwia è una persona sola, e le conseguenze del suo perpetuo esibizionismo emotivo spingono lei a fare i conti con la sua fragilità, con la sua vita al di là dei riflettori dei social media e lo stile di vita di un’influencer.
Sweat: l’intervista al regista Magnus von Horn e Magdalena Kolesnik
Abbiamo intervistato il regista Magnus Von Horn e la protagonista Magdalena Koleśnik che ci hanno parlato del film e del personaggio di Sylwia, che ci permette di entrare nella – vera – vita privata di un’influencer.
Ispirazione
Magnus Von Horn: Ci sono state diverse ispirazioni che hanno aiutato a costruire la storia, diverse, ma il film non è basato su nessuno di realmente esistente, abbiamo voluto creare il personaggio di Sylwia non basandoci espressamente su qualcuno di preciso.
Sweat: la creazione del personaggio
Magdalena Koleśnik: Ho lavorato per un anno come allenatrice, ho provato a ricreare il mio corpo e farlo sembrare come una fitness trainer, e ho avuto tantissime conversazioni con Magnus in cui abbiamo parlato di Sylwia, abbiamo costruito tutta la sua storia, il suo passato, il suo futuro, per avere una visione ampia della sua figura. Ho iniziato a lavorare per avvicinarmi al personaggio e ho iniziato a notare cose diverse nella realtà che potevano ispirarmi. Abbiamo fatto molte ricerche sui social media, ho aperto il mio primo profilo sui social, Instagram, e ho anche fatto work out sui social media, per capire al meglio come essere una fitness trainer, come essere un’influencer, come essere una persona che ispira le persone.
Social media, un vero strumento narrativo?
Magnus Von Horn: Si, penso che lo siano. È un modo molto di interessante perché non è una narrazione tradizionale, è un modo davvero vicino alla vita di narrare, una delle cose che mi hanno ispirato di più per Sweat è la narrazione che nasce nelle storie su Instagram, su Snapchat. In quel caso non pensi di creare una narrazione ma sei quella narrazione, attraverso il blog, o condividendo parte della tua vita di tutti i giorni, quel tipo di narrazione è davvero un’ispirazione per me. Certe volte queste narrazioni sono più interessanti, quando cerchi di pensare alle storie, alla loro struttura, penso che la struttura esiste nel modo naturale in cui inconsciamente la puoi creare, ad esempio nel feed di Instagram o nelle storie.
L’evoluzione del lavoro dell’influncer
Magnus Von Horn: Penso che le influencer continueranno ad esistere finché le persone le vorranno seguire o vorranno contribuire alla loro fama, al loro lavoro, così come il cinema sopravviverà finché ci saranno persone che andranno in sala e guarderanno film. Io non ho una premonizione riguardante il futuro di questo tipo di fenomeno, anche perché quel che diventa trend sui social media è sempre una sorpresa per me. Due anni fa, un anno fa, se qualcuno mi avesse detto che Tiktok avrebbe dominato con le sue challenges, con le sue danze, avrei pensato che quel pensiero sarebbe stato veramente circostanziale, strano.
Magdalena Koleśnik: È imprevedibile, penso che diventeremo sempre più virtuali, sono curiosa di vedere come potremmo diventare davvero creature sempre più virtuali; è un poco spaventoso, ma è il futuro, è come il futuro potrebbe essere, non voglio avere paura di qualcosa che probabilmente succederà.
Sweat sarebbe stato diverso se fosse stato ambientato in un altro paese?
Magnus Von Horn: Penso sarebbe stato simile ma diverso, di paese in paese. Dipende dalla cultura, dalla politica, da quel che muove le persone. Se devo paragonare Svezia e Polonia, sono davvero paesi diversi, fatti sì da persone ma che evidentemente sono diverse, quindi anche i social e il loro impatto è differente, come anche può esserlo in Italia, in Germania. Lo si può percepire ne sono sicuro, si può analizzare, farne una statistica su quanti post ad esempio sul cibo vengono condivisi in Italia rispetto ad altri paesi. Se prendiamo ad esempio Svezia e Polonia, questo discorso è molto connesso anche a quel che gli influencer fanno: in Polonia ci sono molti “playboy sexy”, c’è una ipersessualizzazione e un male gaze imperante, mentre in Svezia questo tipo di influencer non va, non funzionerebbe.
Interviste
Tim Burton incontra il pubblico della Festa del Cinema di Roma

Fra i tanti eventi che hanno segnato una convincente edizione della Festa del Cinema di Roma, c’è sicuramente l’incontro del pubblico dell’Auditorium con Tim Burton. Il regista statunitense ha anche ricevuto il Premio alla Carriera della manifestazione dalle mani di Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo e Gabriella Pescucci, che hanno lavorato più volte insieme a lui, contribuendo con i loro costumi e con le loro scenografie al successo delle sue visionarie opere. Come da tradizione della Festa, Tim Burton ha dialogato con il direttore artistico Antonio Monda e con il professore di cinema della Columbia University Richard Peña, ripercorrendo la sua vita e la sua carriera.
Qual è il primo film visto da Tim Burton? A rispondere è lo stesso regista:
Gli argonauti di Don Chaffey, film indimenticabile che vidi in una sala in California. Una sala straordinaria, dove sembrava di stare all’interno di una conchiglia. Ricordo le scene di combattimento con gli scheletri. Questa è stata la mia prima esperienza al cinema.
Tim Burton ha parlato della sua esperienza nell’animazione Disney a inizio carriera:
Orribile. Si tratta dei miei giorni più bui. C’erano moltissime persone di talento e creatività, impegnate in film come Red e Toby nemiciamici e The Black Hole – Il buco nero, che richiedevano 10 anni di produzione. Figure come Brad Bird e John Lasseter, che alla Pixar hanno dimostrato tutto il loro talento ma lì non avevano spazio. Ero veramente pessimo nel lavoro dell’animazione. Molti sottolineavano che i miei personaggi avevano l’aspetto di qualcuno che è stato messo sotto da una macchina. Per fortuna ero così negato che sono passato a fare altre cose.
Tim Burton ha parlato della sua profonda ammirazione per Mario Bava:
Negli anni ’80 andai a un festival del film horror a Los Angeles, una maratona di 48 ore di fila. A volte durante questi eventi si tende ad assopirsi, ma quando vidi La maschera del demonio di Mario Bava per me fu come essere in un sogno, o più spesso un incubo. Pochi sono riusciti a catturare questo stato onirico, oltre a lui anche Federico Fellini e Dario Argento.
Il regista ha parlato del ruolo dell’art director nei suoi film:
Ho avuto la grande fortuna di lavorare con straordinari artisti. Per me la scenografia e la musica fanno parte dei film, sono veri e propri personaggi. Questo vale anche per i costumi, dal momento che ho avuto la fortuna di lavorare con artisti come Dante Ferretti. I grandi con la loro opera danno un altro personaggio al film, che così diventa il mezzo visivo per eccellenza. I miei disegni sono molti primitivi, per me me gli artisti sono fonti di ispirazione.
Una scena di Edward mani di forbice ha permesso a Tim Burton un excursus sul suo processo creativo:
Rappresenta la mia infanzia. Ho sempre amato le fiabe, ero così. Le fiabe permettono di esplorare veri sentimenti aumentandone l’intensità. Io non mi reputo uno sceneggiatore, parto dalle idee e cerco di stabilire rapporti di collaborazione con persone abili in tal senso. Nel caso di Nightmare Before Christmas, non sono partito da materiale mio, ma era comunque qualcosa che mi permetteva di riconoscermi in alcuni elementi. Cerco sempre di trovare qualcosa con cui rapportarmi, aprendomi alle collaborazioni. Un po’ come quando lavoravo in Disney all’inizio, dove si lanciavano spunti e poi ci si ragionava su insieme.
Il regista ha confermato una voce sulla sua ispirazione per Mars Attacks!:
Mettiamo da parte i grandi romanzi. Sono partito dalla carte che avvolgevano le gomme da masticare. Ho avuto un’infanzia un po’ contorta.
Tim Burton ha fatto un accenno al suo rapporto con gli studios:
Io ho fatto soltanto film con gli studios. Sono stato in una posizione un po’ insolita, perché nonostante questo sono sempre riuscito a fare ciò che volevo fare, e non ho ancora capito come. Per fortuna non hanno mai veramente capito cosa stessi facendo.
Il regista ha parlato del suo Batman, considerato molto dark:
C’è molta confusione su questo discorso. C’era chi diceva che il mio Batman fosse molto più dark, mentre altri dicevano il contrario. Ricordo che McDonald’s non era contenta, perché dalla bocca del Pinguino usciva una roba nera e non sapevano come regolarsi con gli happy meal.
Una scena di Big Fish è servita da spunto di riflessione sul budget di un film e sulle proiezioni di prova:
Il cinema è un’opera collettiva che vede la partecipazione di tante figure diverse da loro. Quando sei un pittore lavori da solo, ma il cinema è una fonte collettiva di gioia. Che il film sia a budget limitato o a budget enorme, pensi sempre che non ne hai abbastanza. Ci sono tanti elementi impalpabili e intangibili, ma non mi sono mai sentito limitato. Le proiezioni di prova sono sempre esperienze che incutono grande terrore, perché comportano anche riempire dei moduli nei quali al pubblico viene chiesto il personaggio preferito. Alla fine se ne fa un uso quasi sempre distorto, è molto difficile rendersi conto di quella che è la percezione del pubblico. Io sono sempre terrorizzato dal rivedere i miei film, vorrei godermi la visione ma non ce la faccio.
Per Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, Tim Burton ha collaborato con un grande della musica americana come Stephen Sondheim:
Stephen è geniale, fu un’esperienza difficile fargli vedere il film. Per fortuna gli piacque, cosa che mi riempì di gioia. È una miscela di horror, commedia e musical. Era molto preoccupato perché nessuno degli attori era un cantante. Io però non lo ritenni un problema, sapevo di essere in buone mani con quel gruppo di attori. È stato di grande sostegno, abbiamo cambiato un po’ di cose ma è andata bene. Devo dire che è stato estremamente divertente: anche se può sembrare assurdo, per me è stato come fare un film muto. Mi sono divertito più con questo film che con molti altri.
Una scena di Big Eyes ha portato a una riflessione su questo recente film di Tim Burton:
Mi ricordo che i quadri di Margaret Keane si trovavano in tutte le case. Io li ho sempre trovati inquietanti, mi chiedevo come mai potesse piacere tanto questo tipo di quadro. Questo ci porta a riflettere sul senso dell’arte. Tutti in qualche modo siamo toccati in modo diverso da quello che vediamo. Per me erano inquietanti, altri li trovavano così carini da appenderli alle mura delle camere dei bambini. Questo è il mestiere dell’artista, ad alcuni piaci e ad altri no.
Il regista ha particolarmente apprezzato la mostra su di lui organizzata dal MOMA nel 2009:
La mostra al MOMA è stata una sorpresa straordinaria. Io sono un pessimo archivista, quindi si è trattato di frugare nei cassetti e trovare queste opere. Un’esperienza sorprendente e indimenticabile. Sorprese come queste mi riempiono di gioia. Questa tra l’altro è stata la mostra che in assoluto ha avuto più successo. Io non mi reputo un artista, però fa pensare che le opere d’arte riescano a ispirare altre persone.
L’ultima sequenza proposta è stata di Ed Wood, il film di Tim Burton che ci dice che anche il peggiore regista di tutti i tempi è a suo modo un artista:
Con Plan 9 from Outer Space, Ed pensava di girare Star Wars. Aveva una passione tale che ritroviamo anche nei suoi diari, in cui si reputa fra i più grandi. Questo ci riporta al discorso di prima su che cos’è l’arte.
Interviste
Petite Maman: intervista alla regista del film Céline Sciamma

Applaudito all’ultimo Festival di Berlino, Petite Maman è il nuovo attesissimo film di Céline Sciamma, dopo il successo planetario di Ritratto della giovane in fiamme. Da sempre attenta al mondo dei giovanissimi e al tema dell’identità femminile, Sciamma torna alle atmosfere di Tomboy, uno dei suoi film più amati, dimostrando ancora una volta una sensibilità fuori dal comune.
Petite Maman ha per protagonista Nelly, una bambina di otto anni che dopo la morte della nonna passa qualche giorno nella casa di campagna dove è cresciuta la madre, Marion. Nelly esplora la casa e il bosco che la circonda, dove sua madre giocava da bambina e dove aveva costruito la casetta di legno di cui Nelly aveva sentito tanto parlare. Dopo che la madre va via all’improvviso, Nelly incontra nel bosco una bambina della sua età che si chiama proprio Marion e sta costruendo una casetta di legno.
Distribuito in Italia da Teodora Film e MUBI, Petite Maman è stato presentato in anteprima durante Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma, occasione che ci ha permesso di incontrare e parlare con la regista Céline Sciamma proprio del suo ultimo lavoro e delle sue ispirazioni.
Petite Maman: l’intervista alla regista del film, Céline Sciamma
Non c’è magia, non ci sono portali che aprono lo spazio-tempo ma solo uno stacco di montaggio che ci conduce in un’altra dimensione. Hai pensato fin dall’inizio a questa modalità di contrapporre due dimensioni differenti?
Quando ho iniziato a scrivere per questo film, e quando poi ho terminato la prima bozza della sceneggiatura, mi sono resa conto che questo film è un vero e proprio viaggio nel tempo. Allora mi sono cominciata a porre delle domande. E mi sono resa conto anche che non volevo che ci fosse una macchina del tempo all’interno del film, volevo che l’unico aspetto magico fosse quello che dà il cinema. Quando si ha un’idea la cosa più importante è rispettarla, quindi mi sono detta che non volevo avere paura; questa è stata la mia intenzione iniziale, la voglio rispettare, voglio resistere alla tentazione delle convenzioni. Ho voluto che questo cinema rispecchiasse quello che io definisco una sorta di realismo magico, un vero e proprio genere cinematografico, e ho voluto ricreare questa atmosfera di magia primitiva.
C’è una grande cooperazione nel film tra ragazze e tra generazioni diverse, quanto ha lavorato per favorire questo?
Questa è un po’ l’idea che combina l’aspetto gioioso e l’aspetto politico del film, che molto spesso vanno di pari passo. L’idea era di eliminare le gerarchie, creare una sorta di equilibrio tra quella che è una madre e quella che è una figlia. Ed è proprio per questo che ho scelto due sorelle; ho pensato tra me e me, ma se io incontrassi mia madre all’età di otto anni potrebbe essere mia sorella! Ho cercato di passare da quella che è un’idea di genealogia verticale ad una orizzontale, ed è questo che ha portato appunto a questo aspetto della solidarietà, della sorellanza, ed è in questo modo che ho cercato di superare la visione di duo, madre e figlia, fino ad arrivare a un vero e proprio trio, e ho cercato di focalizzarmi su questo ruolo del trio nella storia: madre, figlia e la nonna, che è anche molto importante.
Ritorna il tema dell’infanzia e lo sguardo dei bambini. I bambini possono essere un nuovo pubblico di riferimento? Ci sono dei punti di contatto tra lo sguardo dei bambini e lo sguardo delle donne sul mondo?
Volevo ricreare al cinema questo sguardo sia femminile che infantile, in fondo si tratta di personaggi che non riescono quasi mai a dimostrare o a vivere quella che è la loro integrale individualità. I bambini sono un pubblico che mi interessa molto, non hanno pressione culturale, e con questo pubblico, che è interessantissimo, molto moderno, puoi essere poetica, inventiva.
Quando hai deciso di fare questo film, avevi dei riferimenti del cinema precedente che hai rincorso?
Ho pensato molto al cinema d’animazione giapponese, come Miyazaki, e questo film che ha una connotazione molto pittorica, con l’autunno, i colori, fa molto riferimento a questo cinema d’animazione. Volevo citare un altro film che a mio modesto parere è stato un po’ sottovalutato che è Big, con Tom Hanks, io l’ho visto da bambina, l’ho trovato un film davvero sovversivo, e mi ha colpito molto.
La rappresentazione della maternità al cinema ha subito un cambiamento molto importante, vediamo storie di maternità non performativa, non conforme. Cosa ne pensi di questa nuova ondata?
Me ne rallegro in qualche modo. Io dico sempre che il cinema ha un impatto gigantesco sulla vita delle persone, il fatto che vi siano questi film significa che si è autorizzati anche a fare qualcosa di diverso.
Ascoltiamo abbastanza i bambini?
Penso che oggi come oggi i bambini, come la gioventù, siano davvero in prima linea nelle lotte, nel portare avanti nuove idee, lo vediamo per esempio nel caso del cambiamento climatico. Eppure abbiamo visto in questi anni che in qualche modo l’infanzia e i giovani vengono considerati dei cittadini di seconda classe, come se non avessero delle idee politiche, in realtà dipende tutto dalla struttura che li accolgono, che sia la famiglia, la scuola, la società. Ovviamente io lavoro con i bambini, in questo caso con queste due ragazze, quindi mi sono resa conto di quanto siano capaci di individualità, di impegno. I giovani, i bambini sono i portati di nuove idee, ma non per questo noi non dobbiamo lottare perché queste idee prevalgano, i bambini spesso non hanno il peso politico per portare avanti queste idee: siamo noi che dobbiamo farcene portavoce.
Il suo cinema vive di molte suggestioni, come concilia il suo desiderio di trasmettere un messaggio politico con la libertà interpretativa che lascia allo spettatore?
In fondo non ho un messaggio politico preciso da dare, piuttosto mi baso sulle sensazioni. Non c’è un messaggio, cerco di mettere delle idee, delle idee che poi voglio far stare insieme, più idee ci sono insieme più il film diventa politico; per me è importante che ci sia questa ricchezza di possibilità che ti porta a vivere maggiormente la vita, che ti dà più possibilità di interpretazione, quindi queste idee devono danzare insieme, e lo devono fare in maniera davvero sensuale. Sensuale per questo, perché c’è quest’idea del desiderio, un’idea che dà voglia di avere altre idee.
Io credo sempre che i cambiamenti arrivano dove sono più forti i momenti di resistenza. Dove più c’è oppressione c’è anche più forza di resistenza, forse è anche questo il motivo per cui il cinema borghese, e il cinema più sentimentale, innova poco.
Si parla delle paure dei bambini nel film: da bambina aveva paura di qualcosa?
Avevo paura di tutto praticamente, tanti degli elementi del film ricordano molto della mia infanzia, per esempio gli spazi sono ispirati a ricordi della mia infanzia: l’esterno è proprio girato nella città in cui sono cresciuta. Anche la casa che è costruita proprio in studio è basata proprio su ricordi, e ha molte caratteristiche di quelle che erano le case delle mie nonne. Ho cercato di ricreare una sorta di intimità dello spazio, dell’infanzia stessa, ed è uno spazio e un tempo che non ha una connotazione precisa, io volevo che un bambino degli anni ’50 del secolo scorso e un bambino del 2021 potessero vivere e riappropriarsi di questa storia. L’idea era di lavorare su queste paure, paure dell’infanzia, una delle paure più forti che pervade questo film è la tristezza degli adulti. C’è un unico mostro, questa pantera nera, che simboleggia un po’ tutte le nostre paure, e poi volevo che fosse un’ombra fabbricata da un essere umano, perché i bambini spesso credono che queste paure, questi mostri siano gli esseri umani, i grandi che entrano in scena.
Com’è stato girare un film durante la pandemia?
Sicuramente ci sono molti protocolli da seguire e da integrare durante la lavorazione. Da questo punto di vista questo film ha creato meno problemi nel senso che è stato comunque girato in studio, pochi attori, pochi livelli di interazione fisica. Tuttavia è stato comunque qualcosa di diverso dal solito, io dico spesso che girare un film è una sorta di lockdown personale in qualche modo, e attraverso questo mondo vuoto in realtà riesci a ricreare qualcosa. Questa volta il mondo era veramente vuoto, il mondo intorno a noi; quindi quando eravamo li davanti alla cinepresa, il solo fatto di veder togliere una mascherina, di vedere un volto, sicuramente è stata un’esperienza di grande tensione emotiva. Nel film ci sono tante immagini che sono cariche di questi momenti: proprio questo film così atemporale in realtà è così caratterizzato del momento che abbiamo attraversato.
Il cinema può essere uno spazio sicuro? In cui creare intimità e sorellanza?
Io ho fatto dei film in questo modo, ma ho fatto anche altri film per vivere questo sogno, questa immagine, l’idea di poter ricreare questa comunità fraterna: è un’utopia del cinema. Si fanno dei film per vivere determinate idee, oltre che portarle nel mondo.