

Interviste
Martin Scorsese a Roma per The Irishman: “Un film sul dispiegamento di una vita”
La quinta giornata della Festa del Cinema di Roma è stata indubbiamente quella di The Irishman, nuovo film di Martin Scorsese con protagonisti Robert De Niro e Al Pacino. A margine della proiezione stampa, il regista, insieme alla produttrice Emma Tillinger Koskoff, ha incontrato i giornalisti per parlare del suo ultimo imponente lavoro, che sarà distribuito nelle sale italiane dalla Cineteca di Bologna dal 4 al 6 novembre, prima della pubblicazione su Netflix il 27 novembre.
Martin Scorsese ha esordito raccontando la genesi di The Irishman:
«Penso che riguardi il fatto che De Niro e io avevamo scelto di fare un altro film insieme dopo Casinò, datato 1995. Nel corso degli anni, abbiamo cercato progetti e personaggi per lavorare ancora insieme. De Niro qualche anno fa ha letto il libro L’irlandese. Ho ucciso Jimmy Hoffa, basato sulla vita di Frank Sheeran, e me l’ha dato, descrivendomi il personaggio di Frank con grande emozione. Mi sono subito reso conto che c’era qualcosa di speciale, perché saremmo tornati al periodo di Quei bravi ragazzi. Ho sentito dalla reazione al personaggio che doveva essere qualcosa di più, dovevamo andare più a fondo. Il nostro punto di vista era quello dell’età, volevamo fare qualcosa che riguardasse anche l‘amore, il rimorso. Quando abbiamo scelto lo sceneggiatore Steven Zaillian, gli abbiamo spiegato che cosa volevamo fare. Le uccisioni e il panico passano, ma Frank rimane solo, è lasciato solo, e rivive tutta la sua vita. Doveva essere un film sul dispiegamento di una vita».
Emma Tillinger Koskoff ha poi preso la parola per parlare della rilevanza di un film come The Irishman ai nostri giorni:
«Penso che i temi che sono affrontati nel film siano attuali. Sono temi che attraversano il tempo e i confini, e la rendono una storia che parla a tutti. Un progetto perfetto per riuscire mettere di nuovo insieme Scorsese e De Niro». Sul tema è poi intervenuto anche lo stesso Scorsese: «Un film non deve essere ambientato in un contesto contemporaneo per essere contemporaneo. I sentimenti e le decisioni possono essere accessibili e comprensibili anche a persone che non c’erano allora».
Il regista ha poi parlato della malinconia e dell’aspetto religioso di The Irishman:
«Certamente c’è un aspetto religioso, stiamo parlando della condizione umana, che si sia credenti o meno. C’è un tentativo di contemplazione dell’astratto. La malinconia c’è, ma in una sorta di agio. La famiglia ha abbandonato Frank, e il suo conflitto e la sua violenza appartengono al passato. Nessuno se ne ricorda più. Penso che la malinconia sia quindi l’accettazione del fatto che la morte è parte della vita».
Scorsese si è poi concentrato sulla lavorazione del film:
«In termini di descrizione di questi personaggi, c’era qualcosa che ho sentito crescendo in quella zona di New York. Ho sentito il potere. Non c’era più bisogno di esaltare il personaggio criminale, come avevano fatto altri film di gangster, per esempio Scarface. In quel caso il pubblico chiedeva che il gangster, idealizzato, cadesse, in una sorta di catarsi. Il paese voleva quel tipo di storie narrate, sia nel cinema gangster che in quello western. Stavolta non c’era bisogno dicevo, perché quelle azioni sono state commesse quasi in un’ottica militare, come missioni da svolgere. Lavorare con De Niro dopo 23 anni è stato facile, non c’è stato neanche bisogno di parlarci molto. Quando ho visto il modo in cui lo sceneggiatore ha costruito la struttura e la reazione di Bob ho capito come andava fatto questo film: rimanendo attaccato al personaggio, perché lui non sa tutto, come ciascuno di noi. É tutto fuori dal nostro controllo, come il fatto che siamo mortali. Non avevo mai lavorato con Al Pacino, stavamo avviando un progetto su Amedeo Modigliani, ma poi non se ne è fatto nulla. L’idea che fosse Al a fare la parte di Jimmy Hoffa è stata di Bob, e si vede nel film. Tanto è venuto dal loro rapporto. Si stimano e si rispettano. Loro sentivano che stavano facendo qualcosa di speciale. Bob e Al erano sempre presenti, anche quando erano troppo stanchi e li dovevo fermare dal girare. Oltre agli effetti digitali c’è voluto tanto tempo per le riprese, ma era l’unico modo per fare il film, perché altrimenti circa metà film avrebbe dovuto essere girato con attori più giovani. Io però volevo fare i film con i miei amici. A Hollywood non riuscivamo a raccogliere i soldi necessari a fare il film in questa maniera, poi è arrivata Netflix che ci ha dato soldi, libertà creativa completa e 6 mesi di tempo in più per la post produzione».
Netflix e personaggi femminili
Immancabili le polemiche su Netflix e soprattutto sulla scarsità di personaggi femminili protagonisti del cinema di Scorsese. A proposito di quest’ultimo aspetto, Scorsese si è espresso, con malcelato nervosismo, in questi termini: «Questi discorsi mi riportano al 1970. Se la storia richiede un personaggio femminile, perché no. Ma L’età dell’innocenza non conta? Ho 76 anni e poco tempo, non so se riuscirò a fare altri film sulle donne».
Riguardo a Netflix, il cineasta ha invece sviluppato un ragionamento più articolato: «Per vedere un film sullo schermo, prima di tutto il film deve essere fatto. Che tu li veda in streaming, in tv o sull’iPad, i film devono essere fatti. I film che ho avuto la fortuna di girare sono stati ognuno un universo distinto. Alcuni di questi hanno beneficiato del potere di star come De Niro o Leonardo DiCaprio. Ma i film che faccio io non si possono più fare così. Se io avessi avuto 30 anni di meno, non sarei stato in grado di farli. Nel caso di The Irishman, io e De Niro sentivamo che forse potevamo sintetizzare qualcosa che esisteva nelle nostre vite dagli anni ’70, ma non trovavamo finanziamenti. Netflix ci ha dato finanziamento totale, a patto che fosse trasmesso in streaming dopo un passaggio al cinema di quattro settimane. Spesso nella mia carriera alcuni film sono andati al cinema solo due settimane come Re per una notte. Quindi per me un passaggio in sala di quattro settimane era una buona cosa. Rimarrà in sala anche dopo che inizia lo streaming. Io quando faccio un film lo faccio per uno schermo come questo e per un pubblico come voi, ma molti dei film che ho visto li ho visti in bianco e nero su tv mediocri. L’autore non ha controllo su come la gente vedrà il suo film. Chi può prevedere gli sviluppi della tecnologia? Certo, è sempre meglio vedere il film al cinema, ma ripeto, prima bisogna che il film venga fatto. The Irishman l’abbiamo fatto per noi stessi. E Netflix ha dato il sostegno a noi, questa è la grande differenza. Se loro non lo avessero finanziato, questo film non si sarebbe fatto. In un certo senso, va bene vedere i film in qualunque modo, ma alle fine The Irishman verrà comunque visto nelle sale».
Immancabile poi un accenno alla polemica imperante degli ultimi giorni, quella sui cinecomic e in particolare sulla Marvel: «Io spero che i cinema continuino a sostenere i film di narrazione come questo, e che questi film abbiano sale cinematografiche in cui essere visti. Oggi purtroppo le sale cercano i film che io chiamo luna park, i cinecomic, che credo n0n dovrebbero diventare ciò che i nostri giovani vedono come cinema».
Doverosa poi una riflessione del regista sul concetto del ricordo, centrale in The Irishman:
«La mia più che una critica è un’osservazione. Anche se tu vuoi che la gente ricordi, la gente non ricorderà, perché non ha mai vissuto quelle esperienze. Io non so cosa fanno i bambini con tutte queste macchine, percepiscono la realtà in modo diverso da noi. Non so come impareranno cos’è stata la seconda guerra mondiale per esempio, la percepiscono a pezzetti. Il fatto che Hoffa sia diventato uno sconosciuto è molto triste, perché è stato certamente coinvolto in azioni discutibili, ma era anche una persona molto speciale. Eppure, il tempo lo ha spazzato via. Anche i sindacati di allora in un certo senso sono scomparsi con lui».
Dopo un breve accenno alla musica di The Irishman, che lo stesso Scorsese definisce un omaggio al noir francese, C’è sicuramente un riferimento al noir francese, il cineasta ha concluso parlando, insieme alla Tillinger Koskoff, della particolare CGI che gli ha permesso di ringiovanire i propri attori: «The Irishman è un film sperimentale, e quando dico sperimentale, voglio dire che l’esperimento eravamo noi. Man mano che passavano le settimane, la tecnologia è migliorata, e certe cose che avevamo fatto all’inizio le abbiamo rifatte dopo. Questo è un processo veramente complesso, mistico. Abbiamo fatto un test con De Niro, subito dopo che avevo girato Silence, nel 2015. Abbiamo ricreato una scena di Quei bravi ragazzi, se ne sono andati per 3 mesi e poi ci hanno fatto vedere il risultato. La prima volta che abbiamo spiegato le nostre esigenze, chiedendo se erano fattibili, pensavamo a uno schermo verde o a caschi da indossare, e temevamo che ci venisse da ridere sul set. Ho chiesto quindi qualcosa di più sottile, dopo qualche mese abbiamo visto il test, che non era perfetto ma era migliorato. Da quel test sono passati 4 anni, hanno lavorato tanto insieme a noi per migliorare la tecnologia, e i risultati si vedono. Sul set la macchina da presa era la solita, ma sapevamo che c’erano i marker che stavano prendendo anche questo. Quando abbiamo girato, lo abbiamo fatto fatto senza queste tecnologie, poi nei 6 mesi di post produzione facevamo revisioni settimanali per verificare i risultati. Il film completo lo abbiamo visto solo sei settimane fa».
Interviste
Sweat: l’intervista a Magnus von Horn e Magdalena Kolesnik

Cinema e social sembrano due mondi che vivono agli antipodi, due poli opposti, due versioni, due modi di narrare totalmente ambivalenti. Eppure i social media ogni giorno cambiano forma, e da mero strumento intrattenitivo, che nasce e muore sulle piattaforme più diverse, sta diventando e assumendo caratteristiche sempre più simili al cinema, nel suo modo di raccontare, di sperimentare, attraverso molecole di realtà, pillole di autofiction, proprio come lo intendeva Serge Doubrovsky, avventure del linguaggio, e del quotidiano. Raccontare la propria vita attraverso uno schermo verticale sembra essere un modo spontaneo di porsi nella propria narrazione, poco strategico, la possibilità di condividere tutto in maniera rude, anche naturale, senza infingimenti. Eppure il regista Magnus Von Horn ha realizzato una riflessione precisa ed efficace sulle contraddizioni e le libertà di un’esistenza trascorsa e spesa sui social media.
La nostra recensione di Sweat
Sweat è l’ultimo lavoro del regista svedese che ha diretto Magdalena Koleśnik nel ruolo dell’influencer Sylwia Zajac, la cui lunga coda di cavallo bionda, gli occhi azzurri e il corpo tonico sono tutto ciò che ci si aspetterebbe di vedere da un’influencer. Sylwia è una fitness influncer – una sorta di erede, epigono di Jane Fonda e del suo celebre Workout – che conduce frequenti lezioni di allenamento attraverso il suo profilo Instagram, che ha più di 600mila followers.
Durante le sue lezioni di fitness sprona e incita i suoi fan, ogni giorno svela i suoi segreti per rimanere in forma, con i suoi regolari post online, in cui mostra prodotti del suo sponsor, cerca di mantenere i suoi follower sempre motivati ad essere in forma come lei. Sui social conduce una vita impeccabile, sempre perfetta. Il suo successo però ha abissi e ostacoli ben visibili per lei. Nonostante la persona brillante che si costringe ad essere online, c’è una tristezza sempiterna dentro i suoi occhi: Sylwia è una persona sola, e le conseguenze del suo perpetuo esibizionismo emotivo spingono lei a fare i conti con la sua fragilità, con la sua vita al di là dei riflettori dei social media e lo stile di vita di un’influencer.
Sweat: l’intervista al regista Magnus von Horn e Magdalena Kolesnik
Abbiamo intervistato il regista Magnus Von Horn e la protagonista Magdalena Koleśnik che ci hanno parlato del film e del personaggio di Sylwia, che ci permette di entrare nella – vera – vita privata di un’influencer.
Ispirazione
Magnus Von Horn: Ci sono state diverse ispirazioni che hanno aiutato a costruire la storia, diverse, ma il film non è basato su nessuno di realmente esistente, abbiamo voluto creare il personaggio di Sylwia non basandoci espressamente su qualcuno di preciso.
Sweat: la creazione del personaggio
Magdalena Koleśnik: Ho lavorato per un anno come allenatrice, ho provato a ricreare il mio corpo e farlo sembrare come una fitness trainer, e ho avuto tantissime conversazioni con Magnus in cui abbiamo parlato di Sylwia, abbiamo costruito tutta la sua storia, il suo passato, il suo futuro, per avere una visione ampia della sua figura. Ho iniziato a lavorare per avvicinarmi al personaggio e ho iniziato a notare cose diverse nella realtà che potevano ispirarmi. Abbiamo fatto molte ricerche sui social media, ho aperto il mio primo profilo sui social, Instagram, e ho anche fatto work out sui social media, per capire al meglio come essere una fitness trainer, come essere un’influencer, come essere una persona che ispira le persone.
Social media, un vero strumento narrativo?
Magnus Von Horn: Si, penso che lo siano. È un modo molto di interessante perché non è una narrazione tradizionale, è un modo davvero vicino alla vita di narrare, una delle cose che mi hanno ispirato di più per Sweat è la narrazione che nasce nelle storie su Instagram, su Snapchat. In quel caso non pensi di creare una narrazione ma sei quella narrazione, attraverso il blog, o condividendo parte della tua vita di tutti i giorni, quel tipo di narrazione è davvero un’ispirazione per me. Certe volte queste narrazioni sono più interessanti, quando cerchi di pensare alle storie, alla loro struttura, penso che la struttura esiste nel modo naturale in cui inconsciamente la puoi creare, ad esempio nel feed di Instagram o nelle storie.
L’evoluzione del lavoro dell’influncer
Magnus Von Horn: Penso che le influencer continueranno ad esistere finché le persone le vorranno seguire o vorranno contribuire alla loro fama, al loro lavoro, così come il cinema sopravviverà finché ci saranno persone che andranno in sala e guarderanno film. Io non ho una premonizione riguardante il futuro di questo tipo di fenomeno, anche perché quel che diventa trend sui social media è sempre una sorpresa per me. Due anni fa, un anno fa, se qualcuno mi avesse detto che Tiktok avrebbe dominato con le sue challenges, con le sue danze, avrei pensato che quel pensiero sarebbe stato veramente circostanziale, strano.
Magdalena Koleśnik: È imprevedibile, penso che diventeremo sempre più virtuali, sono curiosa di vedere come potremmo diventare davvero creature sempre più virtuali; è un poco spaventoso, ma è il futuro, è come il futuro potrebbe essere, non voglio avere paura di qualcosa che probabilmente succederà.
Sweat sarebbe stato diverso se fosse stato ambientato in un altro paese?
Magnus Von Horn: Penso sarebbe stato simile ma diverso, di paese in paese. Dipende dalla cultura, dalla politica, da quel che muove le persone. Se devo paragonare Svezia e Polonia, sono davvero paesi diversi, fatti sì da persone ma che evidentemente sono diverse, quindi anche i social e il loro impatto è differente, come anche può esserlo in Italia, in Germania. Lo si può percepire ne sono sicuro, si può analizzare, farne una statistica su quanti post ad esempio sul cibo vengono condivisi in Italia rispetto ad altri paesi. Se prendiamo ad esempio Svezia e Polonia, questo discorso è molto connesso anche a quel che gli influencer fanno: in Polonia ci sono molti “playboy sexy”, c’è una ipersessualizzazione e un male gaze imperante, mentre in Svezia questo tipo di influencer non va, non funzionerebbe.
Interviste
Tim Burton incontra il pubblico della Festa del Cinema di Roma

Fra i tanti eventi che hanno segnato una convincente edizione della Festa del Cinema di Roma, c’è sicuramente l’incontro del pubblico dell’Auditorium con Tim Burton. Il regista statunitense ha anche ricevuto il Premio alla Carriera della manifestazione dalle mani di Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo e Gabriella Pescucci, che hanno lavorato più volte insieme a lui, contribuendo con i loro costumi e con le loro scenografie al successo delle sue visionarie opere. Come da tradizione della Festa, Tim Burton ha dialogato con il direttore artistico Antonio Monda e con il professore di cinema della Columbia University Richard Peña, ripercorrendo la sua vita e la sua carriera.
Qual è il primo film visto da Tim Burton? A rispondere è lo stesso regista:
Gli argonauti di Don Chaffey, film indimenticabile che vidi in una sala in California. Una sala straordinaria, dove sembrava di stare all’interno di una conchiglia. Ricordo le scene di combattimento con gli scheletri. Questa è stata la mia prima esperienza al cinema.
Tim Burton ha parlato della sua esperienza nell’animazione Disney a inizio carriera:
Orribile. Si tratta dei miei giorni più bui. C’erano moltissime persone di talento e creatività, impegnate in film come Red e Toby nemiciamici e The Black Hole – Il buco nero, che richiedevano 10 anni di produzione. Figure come Brad Bird e John Lasseter, che alla Pixar hanno dimostrato tutto il loro talento ma lì non avevano spazio. Ero veramente pessimo nel lavoro dell’animazione. Molti sottolineavano che i miei personaggi avevano l’aspetto di qualcuno che è stato messo sotto da una macchina. Per fortuna ero così negato che sono passato a fare altre cose.
Tim Burton ha parlato della sua profonda ammirazione per Mario Bava:
Negli anni ’80 andai a un festival del film horror a Los Angeles, una maratona di 48 ore di fila. A volte durante questi eventi si tende ad assopirsi, ma quando vidi La maschera del demonio di Mario Bava per me fu come essere in un sogno, o più spesso un incubo. Pochi sono riusciti a catturare questo stato onirico, oltre a lui anche Federico Fellini e Dario Argento.
Il regista ha parlato del ruolo dell’art director nei suoi film:
Ho avuto la grande fortuna di lavorare con straordinari artisti. Per me la scenografia e la musica fanno parte dei film, sono veri e propri personaggi. Questo vale anche per i costumi, dal momento che ho avuto la fortuna di lavorare con artisti come Dante Ferretti. I grandi con la loro opera danno un altro personaggio al film, che così diventa il mezzo visivo per eccellenza. I miei disegni sono molti primitivi, per me me gli artisti sono fonti di ispirazione.
Una scena di Edward mani di forbice ha permesso a Tim Burton un excursus sul suo processo creativo:
Rappresenta la mia infanzia. Ho sempre amato le fiabe, ero così. Le fiabe permettono di esplorare veri sentimenti aumentandone l’intensità. Io non mi reputo uno sceneggiatore, parto dalle idee e cerco di stabilire rapporti di collaborazione con persone abili in tal senso. Nel caso di Nightmare Before Christmas, non sono partito da materiale mio, ma era comunque qualcosa che mi permetteva di riconoscermi in alcuni elementi. Cerco sempre di trovare qualcosa con cui rapportarmi, aprendomi alle collaborazioni. Un po’ come quando lavoravo in Disney all’inizio, dove si lanciavano spunti e poi ci si ragionava su insieme.
Il regista ha confermato una voce sulla sua ispirazione per Mars Attacks!:
Mettiamo da parte i grandi romanzi. Sono partito dalla carte che avvolgevano le gomme da masticare. Ho avuto un’infanzia un po’ contorta.
Tim Burton ha fatto un accenno al suo rapporto con gli studios:
Io ho fatto soltanto film con gli studios. Sono stato in una posizione un po’ insolita, perché nonostante questo sono sempre riuscito a fare ciò che volevo fare, e non ho ancora capito come. Per fortuna non hanno mai veramente capito cosa stessi facendo.
Il regista ha parlato del suo Batman, considerato molto dark:
C’è molta confusione su questo discorso. C’era chi diceva che il mio Batman fosse molto più dark, mentre altri dicevano il contrario. Ricordo che McDonald’s non era contenta, perché dalla bocca del Pinguino usciva una roba nera e non sapevano come regolarsi con gli happy meal.
Una scena di Big Fish è servita da spunto di riflessione sul budget di un film e sulle proiezioni di prova:
Il cinema è un’opera collettiva che vede la partecipazione di tante figure diverse da loro. Quando sei un pittore lavori da solo, ma il cinema è una fonte collettiva di gioia. Che il film sia a budget limitato o a budget enorme, pensi sempre che non ne hai abbastanza. Ci sono tanti elementi impalpabili e intangibili, ma non mi sono mai sentito limitato. Le proiezioni di prova sono sempre esperienze che incutono grande terrore, perché comportano anche riempire dei moduli nei quali al pubblico viene chiesto il personaggio preferito. Alla fine se ne fa un uso quasi sempre distorto, è molto difficile rendersi conto di quella che è la percezione del pubblico. Io sono sempre terrorizzato dal rivedere i miei film, vorrei godermi la visione ma non ce la faccio.
Per Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, Tim Burton ha collaborato con un grande della musica americana come Stephen Sondheim:
Stephen è geniale, fu un’esperienza difficile fargli vedere il film. Per fortuna gli piacque, cosa che mi riempì di gioia. È una miscela di horror, commedia e musical. Era molto preoccupato perché nessuno degli attori era un cantante. Io però non lo ritenni un problema, sapevo di essere in buone mani con quel gruppo di attori. È stato di grande sostegno, abbiamo cambiato un po’ di cose ma è andata bene. Devo dire che è stato estremamente divertente: anche se può sembrare assurdo, per me è stato come fare un film muto. Mi sono divertito più con questo film che con molti altri.
Una scena di Big Eyes ha portato a una riflessione su questo recente film di Tim Burton:
Mi ricordo che i quadri di Margaret Keane si trovavano in tutte le case. Io li ho sempre trovati inquietanti, mi chiedevo come mai potesse piacere tanto questo tipo di quadro. Questo ci porta a riflettere sul senso dell’arte. Tutti in qualche modo siamo toccati in modo diverso da quello che vediamo. Per me erano inquietanti, altri li trovavano così carini da appenderli alle mura delle camere dei bambini. Questo è il mestiere dell’artista, ad alcuni piaci e ad altri no.
Il regista ha particolarmente apprezzato la mostra su di lui organizzata dal MOMA nel 2009:
La mostra al MOMA è stata una sorpresa straordinaria. Io sono un pessimo archivista, quindi si è trattato di frugare nei cassetti e trovare queste opere. Un’esperienza sorprendente e indimenticabile. Sorprese come queste mi riempiono di gioia. Questa tra l’altro è stata la mostra che in assoluto ha avuto più successo. Io non mi reputo un artista, però fa pensare che le opere d’arte riescano a ispirare altre persone.
L’ultima sequenza proposta è stata di Ed Wood, il film di Tim Burton che ci dice che anche il peggiore regista di tutti i tempi è a suo modo un artista:
Con Plan 9 from Outer Space, Ed pensava di girare Star Wars. Aveva una passione tale che ritroviamo anche nei suoi diari, in cui si reputa fra i più grandi. Questo ci riporta al discorso di prima su che cos’è l’arte.
Interviste
Petite Maman: intervista alla regista del film Céline Sciamma

Applaudito all’ultimo Festival di Berlino, Petite Maman è il nuovo attesissimo film di Céline Sciamma, dopo il successo planetario di Ritratto della giovane in fiamme. Da sempre attenta al mondo dei giovanissimi e al tema dell’identità femminile, Sciamma torna alle atmosfere di Tomboy, uno dei suoi film più amati, dimostrando ancora una volta una sensibilità fuori dal comune.
Petite Maman ha per protagonista Nelly, una bambina di otto anni che dopo la morte della nonna passa qualche giorno nella casa di campagna dove è cresciuta la madre, Marion. Nelly esplora la casa e il bosco che la circonda, dove sua madre giocava da bambina e dove aveva costruito la casetta di legno di cui Nelly aveva sentito tanto parlare. Dopo che la madre va via all’improvviso, Nelly incontra nel bosco una bambina della sua età che si chiama proprio Marion e sta costruendo una casetta di legno.
Distribuito in Italia da Teodora Film e MUBI, Petite Maman è stato presentato in anteprima durante Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma, occasione che ci ha permesso di incontrare e parlare con la regista Céline Sciamma proprio del suo ultimo lavoro e delle sue ispirazioni.
Petite Maman: l’intervista alla regista del film, Céline Sciamma
Non c’è magia, non ci sono portali che aprono lo spazio-tempo ma solo uno stacco di montaggio che ci conduce in un’altra dimensione. Hai pensato fin dall’inizio a questa modalità di contrapporre due dimensioni differenti?
Quando ho iniziato a scrivere per questo film, e quando poi ho terminato la prima bozza della sceneggiatura, mi sono resa conto che questo film è un vero e proprio viaggio nel tempo. Allora mi sono cominciata a porre delle domande. E mi sono resa conto anche che non volevo che ci fosse una macchina del tempo all’interno del film, volevo che l’unico aspetto magico fosse quello che dà il cinema. Quando si ha un’idea la cosa più importante è rispettarla, quindi mi sono detta che non volevo avere paura; questa è stata la mia intenzione iniziale, la voglio rispettare, voglio resistere alla tentazione delle convenzioni. Ho voluto che questo cinema rispecchiasse quello che io definisco una sorta di realismo magico, un vero e proprio genere cinematografico, e ho voluto ricreare questa atmosfera di magia primitiva.
C’è una grande cooperazione nel film tra ragazze e tra generazioni diverse, quanto ha lavorato per favorire questo?
Questa è un po’ l’idea che combina l’aspetto gioioso e l’aspetto politico del film, che molto spesso vanno di pari passo. L’idea era di eliminare le gerarchie, creare una sorta di equilibrio tra quella che è una madre e quella che è una figlia. Ed è proprio per questo che ho scelto due sorelle; ho pensato tra me e me, ma se io incontrassi mia madre all’età di otto anni potrebbe essere mia sorella! Ho cercato di passare da quella che è un’idea di genealogia verticale ad una orizzontale, ed è questo che ha portato appunto a questo aspetto della solidarietà, della sorellanza, ed è in questo modo che ho cercato di superare la visione di duo, madre e figlia, fino ad arrivare a un vero e proprio trio, e ho cercato di focalizzarmi su questo ruolo del trio nella storia: madre, figlia e la nonna, che è anche molto importante.
Ritorna il tema dell’infanzia e lo sguardo dei bambini. I bambini possono essere un nuovo pubblico di riferimento? Ci sono dei punti di contatto tra lo sguardo dei bambini e lo sguardo delle donne sul mondo?
Volevo ricreare al cinema questo sguardo sia femminile che infantile, in fondo si tratta di personaggi che non riescono quasi mai a dimostrare o a vivere quella che è la loro integrale individualità. I bambini sono un pubblico che mi interessa molto, non hanno pressione culturale, e con questo pubblico, che è interessantissimo, molto moderno, puoi essere poetica, inventiva.
Quando hai deciso di fare questo film, avevi dei riferimenti del cinema precedente che hai rincorso?
Ho pensato molto al cinema d’animazione giapponese, come Miyazaki, e questo film che ha una connotazione molto pittorica, con l’autunno, i colori, fa molto riferimento a questo cinema d’animazione. Volevo citare un altro film che a mio modesto parere è stato un po’ sottovalutato che è Big, con Tom Hanks, io l’ho visto da bambina, l’ho trovato un film davvero sovversivo, e mi ha colpito molto.
La rappresentazione della maternità al cinema ha subito un cambiamento molto importante, vediamo storie di maternità non performativa, non conforme. Cosa ne pensi di questa nuova ondata?
Me ne rallegro in qualche modo. Io dico sempre che il cinema ha un impatto gigantesco sulla vita delle persone, il fatto che vi siano questi film significa che si è autorizzati anche a fare qualcosa di diverso.
Ascoltiamo abbastanza i bambini?
Penso che oggi come oggi i bambini, come la gioventù, siano davvero in prima linea nelle lotte, nel portare avanti nuove idee, lo vediamo per esempio nel caso del cambiamento climatico. Eppure abbiamo visto in questi anni che in qualche modo l’infanzia e i giovani vengono considerati dei cittadini di seconda classe, come se non avessero delle idee politiche, in realtà dipende tutto dalla struttura che li accolgono, che sia la famiglia, la scuola, la società. Ovviamente io lavoro con i bambini, in questo caso con queste due ragazze, quindi mi sono resa conto di quanto siano capaci di individualità, di impegno. I giovani, i bambini sono i portati di nuove idee, ma non per questo noi non dobbiamo lottare perché queste idee prevalgano, i bambini spesso non hanno il peso politico per portare avanti queste idee: siamo noi che dobbiamo farcene portavoce.
Il suo cinema vive di molte suggestioni, come concilia il suo desiderio di trasmettere un messaggio politico con la libertà interpretativa che lascia allo spettatore?
In fondo non ho un messaggio politico preciso da dare, piuttosto mi baso sulle sensazioni. Non c’è un messaggio, cerco di mettere delle idee, delle idee che poi voglio far stare insieme, più idee ci sono insieme più il film diventa politico; per me è importante che ci sia questa ricchezza di possibilità che ti porta a vivere maggiormente la vita, che ti dà più possibilità di interpretazione, quindi queste idee devono danzare insieme, e lo devono fare in maniera davvero sensuale. Sensuale per questo, perché c’è quest’idea del desiderio, un’idea che dà voglia di avere altre idee.
Io credo sempre che i cambiamenti arrivano dove sono più forti i momenti di resistenza. Dove più c’è oppressione c’è anche più forza di resistenza, forse è anche questo il motivo per cui il cinema borghese, e il cinema più sentimentale, innova poco.
Si parla delle paure dei bambini nel film: da bambina aveva paura di qualcosa?
Avevo paura di tutto praticamente, tanti degli elementi del film ricordano molto della mia infanzia, per esempio gli spazi sono ispirati a ricordi della mia infanzia: l’esterno è proprio girato nella città in cui sono cresciuta. Anche la casa che è costruita proprio in studio è basata proprio su ricordi, e ha molte caratteristiche di quelle che erano le case delle mie nonne. Ho cercato di ricreare una sorta di intimità dello spazio, dell’infanzia stessa, ed è uno spazio e un tempo che non ha una connotazione precisa, io volevo che un bambino degli anni ’50 del secolo scorso e un bambino del 2021 potessero vivere e riappropriarsi di questa storia. L’idea era di lavorare su queste paure, paure dell’infanzia, una delle paure più forti che pervade questo film è la tristezza degli adulti. C’è un unico mostro, questa pantera nera, che simboleggia un po’ tutte le nostre paure, e poi volevo che fosse un’ombra fabbricata da un essere umano, perché i bambini spesso credono che queste paure, questi mostri siano gli esseri umani, i grandi che entrano in scena.
Com’è stato girare un film durante la pandemia?
Sicuramente ci sono molti protocolli da seguire e da integrare durante la lavorazione. Da questo punto di vista questo film ha creato meno problemi nel senso che è stato comunque girato in studio, pochi attori, pochi livelli di interazione fisica. Tuttavia è stato comunque qualcosa di diverso dal solito, io dico spesso che girare un film è una sorta di lockdown personale in qualche modo, e attraverso questo mondo vuoto in realtà riesci a ricreare qualcosa. Questa volta il mondo era veramente vuoto, il mondo intorno a noi; quindi quando eravamo li davanti alla cinepresa, il solo fatto di veder togliere una mascherina, di vedere un volto, sicuramente è stata un’esperienza di grande tensione emotiva. Nel film ci sono tante immagini che sono cariche di questi momenti: proprio questo film così atemporale in realtà è così caratterizzato del momento che abbiamo attraversato.
Il cinema può essere uno spazio sicuro? In cui creare intimità e sorellanza?
Io ho fatto dei film in questo modo, ma ho fatto anche altri film per vivere questo sogno, questa immagine, l’idea di poter ricreare questa comunità fraterna: è un’utopia del cinema. Si fanno dei film per vivere determinate idee, oltre che portarle nel mondo.