

Interviste
Speravo de morì prima: Pietro Castellitto e Greta Scarano presentano la serie
Manca poco all’uscita della serie tv Sky Original su Francesco Totti, Speravo de morì prima, disponibile dal 19 Marzo su Sky Atlantic. In diretta dallo stadio Olimpico di Roma, uno spazio che diventa il set della conferenza stampa di presentazione della serie, in cui sono presenti i protagonisti Pietro Castellitto, Greta Scarano, Gian Marco Tognazzi, Monica Guerritore, Giorgio Colangeli, il regista Luca Ribuoli, Nicola Maccanico, Executive Vice President Programming Sky Italia, Mario Gianani, Wildside, e Virginia Valsecchi, Capri Entertainment.
L’ultimo anno e mezzo di carriera di Francesco Totti. Tra presente e passato, pubblico e privato, “Speravo de morì prima” ripercorre serissimamente, ma col tono della commedia, i diciotto mesi che vanno dal ritorno di Luciano Spalletti sulla panchina della Roma al più struggente addio al pallone della storia del calcio. Un anno e mezzo di guerra contro due avversari che non fanno sconti neppure a Francesco Totti: il tempo e l’allenatore. Una guerra che divide una città e la comunità calcistica. Una guerra combattuta con passione e tormento da un calciatore che non vuole e soprattutto non riesce a mettere la parola fine a una carriera da sogno, tutta vissuta indossando sempre e solo una maglia.
Speravo de morì prima, divisa in sei episodi, è tratta da “Un capitano” di Francesco Totti e Paolo Condò, scritta da Stefano Bises, Michele Astori e Maurizio Careddu, prodotta da Mario Gianani per Wildside, del gruppo Fremantle, con Capri Entertainment di Virginia Valsecchi, The New Life Company e Fremantle. Pietro Castellitto è Francesco Totti, Greta Scarano è Ilary Blasi, Gian Marco Tognazzi è Luciano Spalletti, Monica Guerritore è la madre di Totti, Fiorella, Giorgio Colangeli è Enzo, il padre di Totti.
Speravo de morì prima: Pietro Castellitto e Greta Scarano presentano la serie
Durante la conferenza stampa esordisce Nicola Maccanico, Executive Vice President Programming Sky Italia:
“Oggi è una giornata particolarmente emozionante per tutti noi. Non solo per questo luogo evocativo che ci ospita, e non solo per il personaggio di cui abbiamo raccontato una porzione di vita meravigliosa, ma anche per come ci siamo arrivati. Quando Mario e Virginia ci hanno parlato dell’ipotesi di fare una serie sulla vita di Francesco Totti, sapevamo da subito che volevamo realizzarla, che andava costruita e che sarebbe stata un grande successo, pur non sapendo come poterla fare. Questo è stato quello che ha reso questo viaggio unico; intanto abbiamo dovuto decidere come farla, la scelta è stata di selezionare una parte della vita di Totti, la parte in cui emerge di più il lato umano, quindi volendo raccontare l’aspetto più privato, che era meno evidente e altrettanto interessante rispetto alla figura del calciatore, che conosciamo tutti, che abbiamo vissuto, esaltato o combattuto”.
“Farlo anche con uno dei toni di Sky, un tono più pop, più leggero, senza mancare di rispetto ad un momento difficile della vita di un uomo, che è la fine della propria carriera sportiva, ma con quel sapore leggero che fa la differenza nel progetto. Le domande che ci siamo posti sono, come farlo? Quanto lavorare sulla somiglianza? Quanto lavorare sulla tipologia di narrazione e nella scelta del cast? Avevamo dalla nostra parte una scrittura meravigliosa, avevamo un grande regista; bisognava decidere come costruire il gruppo di lavoro”.
Speravo de morì prima è stata scritta da Stefano Bises, Michele Astori e Maurizio Careddu
“Alla fine la decisione che è stata presa è la decisione del talento. Questo è un gruppo di attori di grandissimo talento, che hanno fatto un lavoro in linea con le nostre aspettative, che erano molto alte, e che hanno dato un’identità profonda a una serie che doveva trovarla, in maniera distinta e coerente con la storia del personaggio e con la famiglia che veniva raccontata. Quindi, introducendo questa mattinata, la parola che voglio dire con maggiore enfasi è grazie a questo grande gruppo di lavoro”.
In seguito è intervenuto Mario Gianani, Wildside:
“La cosa intrigante di questa sfida è stata raccontare, fare storia del presente, un momento di condivisione collettiva. Ripercorrere un immaginario, un immaginario recente e quelle storie che sono successe appena ieri. Il contributo degli sceneggiatori è stato fondamentale, la strada narrativa da percorrere era molto stretta, una strada di personalità, di un personaggio che è complesso, una personalità di una città che è Roma, ed è intuire lo spirito di quella persona, di quel momento e di quella emozione collettiva, noi abbiamo seguito solo questo. Abbiamo cercato di evocare quello spirito”.
Anche Virginia Valsecchi, Capri Entertainment, ha dichiarato:
“È stata una partita non proprio facile perché non è facile raccontare la storia di un mito come Francesco Totti, un mito così vicino a noi. Dopo aver prodotto il documentario Mi chiamo Francesco Totti, dovevamo trovare anche un’alternativa narrativa, per affrontare la serie abbiamo deciso di approcciarla non come il classico biopic fiction, ma di scardinare le regole del gioco e di far convergere diversi generi, dal dramma, all’epica sportiva, alla commedia, al romance, alla comicità, perché la vita di Francesco è fatta di tutto questo. Tutto reso possibile grazie alla regia di Luca e al cast eccezionale”.
“Una partita importante anche perché siamo in un momento complicato e dobbiamo raccontare dei miti, dei personaggi positivi, come Totti. Una persona che nonostante le avversità della vita si è sempre alzata in piedi e ha sempre portato avanti la sua passione. Il nostro compito è raccontare personaggi positivi, carismatici perché il pubblico e soprattutto le nuove generazioni hanno bisogno di una guida in cui riconoscersi”.
Durante la conferenza stampa è intervenuto il regista Luca Ribuoli:
“Quando mi hanno proposto di fare una serie su Totti, ho sentito forte la responsabilità, ho sentito subito il desiderio di volerla fare anche se non sapevo di cosa si sarebbe trattato. Il gruppo di lavoro mi ha reso tranquillo. Sapevo che con Stefano Bises e Michele Astori, con cui avevo fatto già altri progetti, avremmo percorso una strada che in qualche modo avevamo già esplorato; mi sembrava che il racconto di Totti potesse essere una sfida che noi potevamo affrontare. Avevamo sempre davanti il senso di responsabilità che si percepisce con un personaggio così importante per questa città. Una persona, sempre presente, affianco a noi, a cui avremmo dovuto raccontare quello che volevamo fare e poi mostrare il lavoro”.
“Quindi come affrontarlo? Con senso di responsabilità; ho scelto di divertirmi, di giocare esattamente come il nostro protagonista faceva principalmente nella vita. Abbiamo costruito insieme una squadra di lavoro importante, partendo dalla scrittura che si è superata secondo me per le cose che ho letto. Il cast ci ha portato degli attori incredibili, mi sentivo protetto dal talento che avevamo sul campo. Pietro Castellitto ha avuto un coraggio incredibile, ed è stato un partner pazzesco. Il risultato è quello che io speravo all’inizio che avremmo ottenuto”.
Durante gli interventi della conferenza, è stato poi proiettato un piccolo contribuito di Francesco Totti:
“Volevo ringraziare tutti i ragazzi che hanno partecipato a questa serie, in particolare Pietro perché ha un ruolo molto difficile, ha cercato in tutto e per tutto di farmi uscire per come sono realmente. Ho visto delle cose che non conoscevo del mio carattere, lo ringrazierò dal vivo. La serie va vista perché è simpatica ed emozionante”.
Ha preso poi parola Pietro Castellitto:
“Partendo dalle parole del Capitano, dice che rivedendosi ha scoperto degli aspetti del suo carattere che neanche conosceva. Questa è stata un po’ la bussola che ci ha orientati anche con Luca, la sfida era di riuscire a creare una maschera che lo ricordasse e che lo evocasse, e che allo stesso tempo lo stupisse. Il cinema è evocazione non è imitazione. Io ho passato la maggior parte delle mi3 domeniche su queste seggioline blu, però non avevo mai conosciuto Totti”.
“L’ho conosciuto grazie a questa serie. Sono cresciuto col poster di Totti in camera, io ero piccolo e guardavo Totti che era un uomo. Riuscire poi ad interpretarlo è stato un vero scherzo del destino. Però c’è stato anche un altro scherzo del destino durante le riprese; ho ritrovato un diario di quando avevo 9 anni, in cui il capitolo più lungo che scrissi era su Totti: “Totti è un qualcosa che l’umanità neanche se ci prova riesce a inventare”.
In seguito è intervenuta Greta Scarano:
“Sono una persona molto sportiva, ho sentito molto quando Totti se ne è andato: quell’emozione di quel commiato così struggente. Sono arrivata quando la macchina era già abbastanza rodata, ho trovato un gruppo di lavoro incredibile, ho sentito che da parte loro c’era molto coraggio, molta ambizione. Quando ho letto le sceneggiature ho capito che volevo farlo a tutti i costi, perché ho sentito che c’era del materiale incredibile per un’attrice, per me e anche per tutto il resto del cast. Sicuramente la cosa interessante è stata stare accanto a Pietro, che raccontava questo personaggio mitico e leggendario, lo ha fatto con una grazia e una semplicità che non è da tutti, insieme a lui abbiamo cercato di raccontare questo rapporto che è così solido, longevo”.
“Abbiamo tentato di raccontare un grande amore e mi piace immaginare che è simile al rapporto e all’amore che Totti prova per la Roma, quella sua coerenza, che è la stessa di Ilary, di stare insieme e starsi vicino anche nei momenti più difficili. L’ho vissuto come se fosse un dramma shakespeariano, perché chiedere a uomo di andare via dal mondo che lo ha reso quello che è, all’apice della sua carriera, anche all’apice della sua evoluzione mentale come uomo, mi sembra un dramma incredibile”.
Durante la conferenza stampa è intervenuto GianMarco Tognazzi:
“Ho cercato di trovare un filo conduttore e l’ho identificato nel disagio, disagio non soltanto di Spalletti, ma di una società, di una squadra, di un gruppo, il disagio di Totti, perché noi raccontiamo il punto di vista di Totti. Quindi il disagio di dover gestire una serie di situazioni, anche di dover riprendere in mano le fila di un rapporto che si era interrotto anni prima e che aveva avuto delle prerogative diverse, in cui ci sono stati dei malintesi, dei non detti che si sono portati dietro”.
“Quindi non mi piaceva l’idea dell’antagonista o del cattivo, perché non ritengo che sia tale, allora ho preferito approfondire il credo calcistico di Spalletti, che si basa sulla filosofia legata all’importanza del gruppo, che supera i singoli, anche se in questo senso contraddice il suo primo rapporto con Totti, che aveva messo al centro della squadra, aveva costruito tutto intorno a Totti, ma probabilmente nella testa di Spalletti erano anche due periodi diversi, due momenti diversi, sia suoi che della carriera di Totti”.
“Ho voluto lavorare sui non detti perché quello che si dice è molto importante, i fatti li conosciamo, credo che il grande aspetto sia legato al rapporto interpersonale, a quelle cose che vengono fuori anche dagli sguardi. Ed è stata un’esperienza sotto il profilo lavorativo straordinaria. L’interpretazione di Pietro secondo me è straordinaria. La cosa importante non è quanto ci si assomiglia a questi personaggi ma quanto si riusciva a trovarne l’anima, il ritmo. Va bene ricreare il segno ma la grande forza è composta da tutte quelle cose che noi abbiamo immaginato di questi personaggi nel loro privato e che in realtà non conosciamo. La grande forza di questa serie secondo me è legata ai rapporti interpersonali”.
Ha preso poi parola Monica Guerritore:
“Unisci madre e Roma e viene fuori la figura di Fiorella. Questa è la cosa che mi ha più diretta per riempire il personaggio di cuore, di carne, di forza, di passione riguardo al proprio figlio, individuare in lui una seconda nascita che è il talento che è forse la cosa più bella che una madre può dare a un figlio. La seconda vita, la vita per il quale il ragazzino è portato, e lei lo individua e gli sta accanto sempre con tutta la forza e la passione. Un viaggio in una famiglia normale, romana che ama il proprio figlio, che gli sta accanto e che soffre mortalmente nel vedere che questa fine inevitabile lo sta devastando. Tant’è che il titolo, che trovo bellissimo, Speravo de morì prima, è un modo per dire: è un dolore troppo grande che mi schianta”.
Durante la conferenza stampa è intervenuto anche Giorgio Colangeli:
“Enzo è un personaggio tipicamente romano, è proprio il marito e il padre romano, quello che è apparentemente assente, che però ha una sua presenza fatta di silenzi, di ascolto, di attenzione. Si riserva qualche battuta nel controtempo, nella pausa che gli viene concessa, perché Fiorella è straripante, c’è poco tempo a disposizione, bisogna essere pungenti, efficaci con poco, riuscire a dire quello che serve”.
In seguito, Pietro Castellitto ha dichiarato:
“Quando convivi tanto con un idolo in qualche modo presumi di conoscerlo. Incontrandolo per la prima volta ho scoperto un Totti incredibilmente loquace. Io penso che per giocare così bene a pallone devi anche essere molto intelligente, devi avere un cervello che metabolizza i dati in maniera veloce, sintetico, non è detto che quell’intelligenza esca anche a parole. Invece ho scoperto il suo essere loquace, che teneva banco, e anche molto consapevole di quello che rappresenta per un ragazzo cresciuto con lui. È consapevole del mito che è e proprio per questo fa di tutto per metterti a tuo agio. Una persona libera che se si accorge che ci stanno le premesse per divertirsi si diverte con te”.
“Totti lo conoscevo dalla tribuna, la serie è soprattutto concentrata sulla parte più intima, ed è li che si sarebbe giocata la partita. Anche perché nessuno sa com’è Totti dentro casa, come si relaziona una volta che esce dal campo con i propri familiari. Uno può presumerlo: quella era una zona d’ombra che nessuno conosce e che anche a noi attori consentiva maggiore creatività. Ho cercato di riportare anche in quell’ambito l’essenza di Totti che è un’essenza ironica, e come attore credo che forse mai così tanto ho percepito giorno per giorno di migliorare come attore, di crescere”.
Speravo de morì prima, dal 19 Marzo su Sky Atlantic
“Oggi andiamo interpretando la morte in vita di Totti, il tema principale di questa serie è la fine, tutti si possono riconoscere in questo concetto. Tutti i tifosi si potranno riconoscere in Totti perché Totti è per sua natura archetipo, è una rete di salvataggio. Il Totti che conoscevo da tifoso era un Totti innanzitutto ironico; nella preparazione del personaggio ho cercato di amplificare i ricordi che avevo di Totti, anche perché ho sempre creduto che se mi erano rimaste in testa quelle immagini è perché la dentro c’era già la sua essenza. Totti è rimasto molto soddisfatto, il parametro da seguire credo che fosse lui. Per quanto riguarda Spalletti, io penso che GianMarco sia riuscito con una sensibilità incredibile a conferirgli una profondissima fragilità, tutto ciò che accade è figlio di quella fragilità, e ogni gesto è umanizzato. Quindi credo che dentro le dinamiche umane tutto abbia un senso.
Infine Nicola Maccanico ha affermato:
“Speravo de morì prima nasce per andare oltre le barriere del tifo, la serie nasce per raccontare la storia di un uomo che va molto oltre la maglia che ha indossato, ed è chiaro che il suo pubblico di riferimento, i suoi fan, sono le prime persone che ci aspettiamo che reagiscano, ma l’abbiamo immaginata e realizzata per raccontare una storia universale e nella sua universalità non c’è un tifo più forte di un altro”.
Interviste
Sweat: l’intervista a Magnus von Horn e Magdalena Kolesnik

Cinema e social sembrano due mondi che vivono agli antipodi, due poli opposti, due versioni, due modi di narrare totalmente ambivalenti. Eppure i social media ogni giorno cambiano forma, e da mero strumento intrattenitivo, che nasce e muore sulle piattaforme più diverse, sta diventando e assumendo caratteristiche sempre più simili al cinema, nel suo modo di raccontare, di sperimentare, attraverso molecole di realtà, pillole di autofiction, proprio come lo intendeva Serge Doubrovsky, avventure del linguaggio, e del quotidiano. Raccontare la propria vita attraverso uno schermo verticale sembra essere un modo spontaneo di porsi nella propria narrazione, poco strategico, la possibilità di condividere tutto in maniera rude, anche naturale, senza infingimenti. Eppure il regista Magnus Von Horn ha realizzato una riflessione precisa ed efficace sulle contraddizioni e le libertà di un’esistenza trascorsa e spesa sui social media.
La nostra recensione di Sweat
Sweat è l’ultimo lavoro del regista svedese che ha diretto Magdalena Koleśnik nel ruolo dell’influencer Sylwia Zajac, la cui lunga coda di cavallo bionda, gli occhi azzurri e il corpo tonico sono tutto ciò che ci si aspetterebbe di vedere da un’influencer. Sylwia è una fitness influncer – una sorta di erede, epigono di Jane Fonda e del suo celebre Workout – che conduce frequenti lezioni di allenamento attraverso il suo profilo Instagram, che ha più di 600mila followers.
Durante le sue lezioni di fitness sprona e incita i suoi fan, ogni giorno svela i suoi segreti per rimanere in forma, con i suoi regolari post online, in cui mostra prodotti del suo sponsor, cerca di mantenere i suoi follower sempre motivati ad essere in forma come lei. Sui social conduce una vita impeccabile, sempre perfetta. Il suo successo però ha abissi e ostacoli ben visibili per lei. Nonostante la persona brillante che si costringe ad essere online, c’è una tristezza sempiterna dentro i suoi occhi: Sylwia è una persona sola, e le conseguenze del suo perpetuo esibizionismo emotivo spingono lei a fare i conti con la sua fragilità, con la sua vita al di là dei riflettori dei social media e lo stile di vita di un’influencer.
Sweat: l’intervista al regista Magnus von Horn e Magdalena Kolesnik
Abbiamo intervistato il regista Magnus Von Horn e la protagonista Magdalena Koleśnik che ci hanno parlato del film e del personaggio di Sylwia, che ci permette di entrare nella – vera – vita privata di un’influencer.
Ispirazione
Magnus Von Horn: Ci sono state diverse ispirazioni che hanno aiutato a costruire la storia, diverse, ma il film non è basato su nessuno di realmente esistente, abbiamo voluto creare il personaggio di Sylwia non basandoci espressamente su qualcuno di preciso.
Sweat: la creazione del personaggio
Magdalena Koleśnik: Ho lavorato per un anno come allenatrice, ho provato a ricreare il mio corpo e farlo sembrare come una fitness trainer, e ho avuto tantissime conversazioni con Magnus in cui abbiamo parlato di Sylwia, abbiamo costruito tutta la sua storia, il suo passato, il suo futuro, per avere una visione ampia della sua figura. Ho iniziato a lavorare per avvicinarmi al personaggio e ho iniziato a notare cose diverse nella realtà che potevano ispirarmi. Abbiamo fatto molte ricerche sui social media, ho aperto il mio primo profilo sui social, Instagram, e ho anche fatto work out sui social media, per capire al meglio come essere una fitness trainer, come essere un’influencer, come essere una persona che ispira le persone.
Social media, un vero strumento narrativo?
Magnus Von Horn: Si, penso che lo siano. È un modo molto di interessante perché non è una narrazione tradizionale, è un modo davvero vicino alla vita di narrare, una delle cose che mi hanno ispirato di più per Sweat è la narrazione che nasce nelle storie su Instagram, su Snapchat. In quel caso non pensi di creare una narrazione ma sei quella narrazione, attraverso il blog, o condividendo parte della tua vita di tutti i giorni, quel tipo di narrazione è davvero un’ispirazione per me. Certe volte queste narrazioni sono più interessanti, quando cerchi di pensare alle storie, alla loro struttura, penso che la struttura esiste nel modo naturale in cui inconsciamente la puoi creare, ad esempio nel feed di Instagram o nelle storie.
L’evoluzione del lavoro dell’influncer
Magnus Von Horn: Penso che le influencer continueranno ad esistere finché le persone le vorranno seguire o vorranno contribuire alla loro fama, al loro lavoro, così come il cinema sopravviverà finché ci saranno persone che andranno in sala e guarderanno film. Io non ho una premonizione riguardante il futuro di questo tipo di fenomeno, anche perché quel che diventa trend sui social media è sempre una sorpresa per me. Due anni fa, un anno fa, se qualcuno mi avesse detto che Tiktok avrebbe dominato con le sue challenges, con le sue danze, avrei pensato che quel pensiero sarebbe stato veramente circostanziale, strano.
Magdalena Koleśnik: È imprevedibile, penso che diventeremo sempre più virtuali, sono curiosa di vedere come potremmo diventare davvero creature sempre più virtuali; è un poco spaventoso, ma è il futuro, è come il futuro potrebbe essere, non voglio avere paura di qualcosa che probabilmente succederà.
Sweat sarebbe stato diverso se fosse stato ambientato in un altro paese?
Magnus Von Horn: Penso sarebbe stato simile ma diverso, di paese in paese. Dipende dalla cultura, dalla politica, da quel che muove le persone. Se devo paragonare Svezia e Polonia, sono davvero paesi diversi, fatti sì da persone ma che evidentemente sono diverse, quindi anche i social e il loro impatto è differente, come anche può esserlo in Italia, in Germania. Lo si può percepire ne sono sicuro, si può analizzare, farne una statistica su quanti post ad esempio sul cibo vengono condivisi in Italia rispetto ad altri paesi. Se prendiamo ad esempio Svezia e Polonia, questo discorso è molto connesso anche a quel che gli influencer fanno: in Polonia ci sono molti “playboy sexy”, c’è una ipersessualizzazione e un male gaze imperante, mentre in Svezia questo tipo di influencer non va, non funzionerebbe.
Interviste
Tim Burton incontra il pubblico della Festa del Cinema di Roma

Fra i tanti eventi che hanno segnato una convincente edizione della Festa del Cinema di Roma, c’è sicuramente l’incontro del pubblico dell’Auditorium con Tim Burton. Il regista statunitense ha anche ricevuto il Premio alla Carriera della manifestazione dalle mani di Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo e Gabriella Pescucci, che hanno lavorato più volte insieme a lui, contribuendo con i loro costumi e con le loro scenografie al successo delle sue visionarie opere. Come da tradizione della Festa, Tim Burton ha dialogato con il direttore artistico Antonio Monda e con il professore di cinema della Columbia University Richard Peña, ripercorrendo la sua vita e la sua carriera.
Qual è il primo film visto da Tim Burton? A rispondere è lo stesso regista:
Gli argonauti di Don Chaffey, film indimenticabile che vidi in una sala in California. Una sala straordinaria, dove sembrava di stare all’interno di una conchiglia. Ricordo le scene di combattimento con gli scheletri. Questa è stata la mia prima esperienza al cinema.
Tim Burton ha parlato della sua esperienza nell’animazione Disney a inizio carriera:
Orribile. Si tratta dei miei giorni più bui. C’erano moltissime persone di talento e creatività, impegnate in film come Red e Toby nemiciamici e The Black Hole – Il buco nero, che richiedevano 10 anni di produzione. Figure come Brad Bird e John Lasseter, che alla Pixar hanno dimostrato tutto il loro talento ma lì non avevano spazio. Ero veramente pessimo nel lavoro dell’animazione. Molti sottolineavano che i miei personaggi avevano l’aspetto di qualcuno che è stato messo sotto da una macchina. Per fortuna ero così negato che sono passato a fare altre cose.
Tim Burton ha parlato della sua profonda ammirazione per Mario Bava:
Negli anni ’80 andai a un festival del film horror a Los Angeles, una maratona di 48 ore di fila. A volte durante questi eventi si tende ad assopirsi, ma quando vidi La maschera del demonio di Mario Bava per me fu come essere in un sogno, o più spesso un incubo. Pochi sono riusciti a catturare questo stato onirico, oltre a lui anche Federico Fellini e Dario Argento.
Il regista ha parlato del ruolo dell’art director nei suoi film:
Ho avuto la grande fortuna di lavorare con straordinari artisti. Per me la scenografia e la musica fanno parte dei film, sono veri e propri personaggi. Questo vale anche per i costumi, dal momento che ho avuto la fortuna di lavorare con artisti come Dante Ferretti. I grandi con la loro opera danno un altro personaggio al film, che così diventa il mezzo visivo per eccellenza. I miei disegni sono molti primitivi, per me me gli artisti sono fonti di ispirazione.
Una scena di Edward mani di forbice ha permesso a Tim Burton un excursus sul suo processo creativo:
Rappresenta la mia infanzia. Ho sempre amato le fiabe, ero così. Le fiabe permettono di esplorare veri sentimenti aumentandone l’intensità. Io non mi reputo uno sceneggiatore, parto dalle idee e cerco di stabilire rapporti di collaborazione con persone abili in tal senso. Nel caso di Nightmare Before Christmas, non sono partito da materiale mio, ma era comunque qualcosa che mi permetteva di riconoscermi in alcuni elementi. Cerco sempre di trovare qualcosa con cui rapportarmi, aprendomi alle collaborazioni. Un po’ come quando lavoravo in Disney all’inizio, dove si lanciavano spunti e poi ci si ragionava su insieme.
Il regista ha confermato una voce sulla sua ispirazione per Mars Attacks!:
Mettiamo da parte i grandi romanzi. Sono partito dalla carte che avvolgevano le gomme da masticare. Ho avuto un’infanzia un po’ contorta.
Tim Burton ha fatto un accenno al suo rapporto con gli studios:
Io ho fatto soltanto film con gli studios. Sono stato in una posizione un po’ insolita, perché nonostante questo sono sempre riuscito a fare ciò che volevo fare, e non ho ancora capito come. Per fortuna non hanno mai veramente capito cosa stessi facendo.
Il regista ha parlato del suo Batman, considerato molto dark:
C’è molta confusione su questo discorso. C’era chi diceva che il mio Batman fosse molto più dark, mentre altri dicevano il contrario. Ricordo che McDonald’s non era contenta, perché dalla bocca del Pinguino usciva una roba nera e non sapevano come regolarsi con gli happy meal.
Una scena di Big Fish è servita da spunto di riflessione sul budget di un film e sulle proiezioni di prova:
Il cinema è un’opera collettiva che vede la partecipazione di tante figure diverse da loro. Quando sei un pittore lavori da solo, ma il cinema è una fonte collettiva di gioia. Che il film sia a budget limitato o a budget enorme, pensi sempre che non ne hai abbastanza. Ci sono tanti elementi impalpabili e intangibili, ma non mi sono mai sentito limitato. Le proiezioni di prova sono sempre esperienze che incutono grande terrore, perché comportano anche riempire dei moduli nei quali al pubblico viene chiesto il personaggio preferito. Alla fine se ne fa un uso quasi sempre distorto, è molto difficile rendersi conto di quella che è la percezione del pubblico. Io sono sempre terrorizzato dal rivedere i miei film, vorrei godermi la visione ma non ce la faccio.
Per Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, Tim Burton ha collaborato con un grande della musica americana come Stephen Sondheim:
Stephen è geniale, fu un’esperienza difficile fargli vedere il film. Per fortuna gli piacque, cosa che mi riempì di gioia. È una miscela di horror, commedia e musical. Era molto preoccupato perché nessuno degli attori era un cantante. Io però non lo ritenni un problema, sapevo di essere in buone mani con quel gruppo di attori. È stato di grande sostegno, abbiamo cambiato un po’ di cose ma è andata bene. Devo dire che è stato estremamente divertente: anche se può sembrare assurdo, per me è stato come fare un film muto. Mi sono divertito più con questo film che con molti altri.
Una scena di Big Eyes ha portato a una riflessione su questo recente film di Tim Burton:
Mi ricordo che i quadri di Margaret Keane si trovavano in tutte le case. Io li ho sempre trovati inquietanti, mi chiedevo come mai potesse piacere tanto questo tipo di quadro. Questo ci porta a riflettere sul senso dell’arte. Tutti in qualche modo siamo toccati in modo diverso da quello che vediamo. Per me erano inquietanti, altri li trovavano così carini da appenderli alle mura delle camere dei bambini. Questo è il mestiere dell’artista, ad alcuni piaci e ad altri no.
Il regista ha particolarmente apprezzato la mostra su di lui organizzata dal MOMA nel 2009:
La mostra al MOMA è stata una sorpresa straordinaria. Io sono un pessimo archivista, quindi si è trattato di frugare nei cassetti e trovare queste opere. Un’esperienza sorprendente e indimenticabile. Sorprese come queste mi riempiono di gioia. Questa tra l’altro è stata la mostra che in assoluto ha avuto più successo. Io non mi reputo un artista, però fa pensare che le opere d’arte riescano a ispirare altre persone.
L’ultima sequenza proposta è stata di Ed Wood, il film di Tim Burton che ci dice che anche il peggiore regista di tutti i tempi è a suo modo un artista:
Con Plan 9 from Outer Space, Ed pensava di girare Star Wars. Aveva una passione tale che ritroviamo anche nei suoi diari, in cui si reputa fra i più grandi. Questo ci riporta al discorso di prima su che cos’è l’arte.
Interviste
Petite Maman: intervista alla regista del film Céline Sciamma

Applaudito all’ultimo Festival di Berlino, Petite Maman è il nuovo attesissimo film di Céline Sciamma, dopo il successo planetario di Ritratto della giovane in fiamme. Da sempre attenta al mondo dei giovanissimi e al tema dell’identità femminile, Sciamma torna alle atmosfere di Tomboy, uno dei suoi film più amati, dimostrando ancora una volta una sensibilità fuori dal comune.
Petite Maman ha per protagonista Nelly, una bambina di otto anni che dopo la morte della nonna passa qualche giorno nella casa di campagna dove è cresciuta la madre, Marion. Nelly esplora la casa e il bosco che la circonda, dove sua madre giocava da bambina e dove aveva costruito la casetta di legno di cui Nelly aveva sentito tanto parlare. Dopo che la madre va via all’improvviso, Nelly incontra nel bosco una bambina della sua età che si chiama proprio Marion e sta costruendo una casetta di legno.
Distribuito in Italia da Teodora Film e MUBI, Petite Maman è stato presentato in anteprima durante Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma, occasione che ci ha permesso di incontrare e parlare con la regista Céline Sciamma proprio del suo ultimo lavoro e delle sue ispirazioni.
Petite Maman: l’intervista alla regista del film, Céline Sciamma
Non c’è magia, non ci sono portali che aprono lo spazio-tempo ma solo uno stacco di montaggio che ci conduce in un’altra dimensione. Hai pensato fin dall’inizio a questa modalità di contrapporre due dimensioni differenti?
Quando ho iniziato a scrivere per questo film, e quando poi ho terminato la prima bozza della sceneggiatura, mi sono resa conto che questo film è un vero e proprio viaggio nel tempo. Allora mi sono cominciata a porre delle domande. E mi sono resa conto anche che non volevo che ci fosse una macchina del tempo all’interno del film, volevo che l’unico aspetto magico fosse quello che dà il cinema. Quando si ha un’idea la cosa più importante è rispettarla, quindi mi sono detta che non volevo avere paura; questa è stata la mia intenzione iniziale, la voglio rispettare, voglio resistere alla tentazione delle convenzioni. Ho voluto che questo cinema rispecchiasse quello che io definisco una sorta di realismo magico, un vero e proprio genere cinematografico, e ho voluto ricreare questa atmosfera di magia primitiva.
C’è una grande cooperazione nel film tra ragazze e tra generazioni diverse, quanto ha lavorato per favorire questo?
Questa è un po’ l’idea che combina l’aspetto gioioso e l’aspetto politico del film, che molto spesso vanno di pari passo. L’idea era di eliminare le gerarchie, creare una sorta di equilibrio tra quella che è una madre e quella che è una figlia. Ed è proprio per questo che ho scelto due sorelle; ho pensato tra me e me, ma se io incontrassi mia madre all’età di otto anni potrebbe essere mia sorella! Ho cercato di passare da quella che è un’idea di genealogia verticale ad una orizzontale, ed è questo che ha portato appunto a questo aspetto della solidarietà, della sorellanza, ed è in questo modo che ho cercato di superare la visione di duo, madre e figlia, fino ad arrivare a un vero e proprio trio, e ho cercato di focalizzarmi su questo ruolo del trio nella storia: madre, figlia e la nonna, che è anche molto importante.
Ritorna il tema dell’infanzia e lo sguardo dei bambini. I bambini possono essere un nuovo pubblico di riferimento? Ci sono dei punti di contatto tra lo sguardo dei bambini e lo sguardo delle donne sul mondo?
Volevo ricreare al cinema questo sguardo sia femminile che infantile, in fondo si tratta di personaggi che non riescono quasi mai a dimostrare o a vivere quella che è la loro integrale individualità. I bambini sono un pubblico che mi interessa molto, non hanno pressione culturale, e con questo pubblico, che è interessantissimo, molto moderno, puoi essere poetica, inventiva.
Quando hai deciso di fare questo film, avevi dei riferimenti del cinema precedente che hai rincorso?
Ho pensato molto al cinema d’animazione giapponese, come Miyazaki, e questo film che ha una connotazione molto pittorica, con l’autunno, i colori, fa molto riferimento a questo cinema d’animazione. Volevo citare un altro film che a mio modesto parere è stato un po’ sottovalutato che è Big, con Tom Hanks, io l’ho visto da bambina, l’ho trovato un film davvero sovversivo, e mi ha colpito molto.
La rappresentazione della maternità al cinema ha subito un cambiamento molto importante, vediamo storie di maternità non performativa, non conforme. Cosa ne pensi di questa nuova ondata?
Me ne rallegro in qualche modo. Io dico sempre che il cinema ha un impatto gigantesco sulla vita delle persone, il fatto che vi siano questi film significa che si è autorizzati anche a fare qualcosa di diverso.
Ascoltiamo abbastanza i bambini?
Penso che oggi come oggi i bambini, come la gioventù, siano davvero in prima linea nelle lotte, nel portare avanti nuove idee, lo vediamo per esempio nel caso del cambiamento climatico. Eppure abbiamo visto in questi anni che in qualche modo l’infanzia e i giovani vengono considerati dei cittadini di seconda classe, come se non avessero delle idee politiche, in realtà dipende tutto dalla struttura che li accolgono, che sia la famiglia, la scuola, la società. Ovviamente io lavoro con i bambini, in questo caso con queste due ragazze, quindi mi sono resa conto di quanto siano capaci di individualità, di impegno. I giovani, i bambini sono i portati di nuove idee, ma non per questo noi non dobbiamo lottare perché queste idee prevalgano, i bambini spesso non hanno il peso politico per portare avanti queste idee: siamo noi che dobbiamo farcene portavoce.
Il suo cinema vive di molte suggestioni, come concilia il suo desiderio di trasmettere un messaggio politico con la libertà interpretativa che lascia allo spettatore?
In fondo non ho un messaggio politico preciso da dare, piuttosto mi baso sulle sensazioni. Non c’è un messaggio, cerco di mettere delle idee, delle idee che poi voglio far stare insieme, più idee ci sono insieme più il film diventa politico; per me è importante che ci sia questa ricchezza di possibilità che ti porta a vivere maggiormente la vita, che ti dà più possibilità di interpretazione, quindi queste idee devono danzare insieme, e lo devono fare in maniera davvero sensuale. Sensuale per questo, perché c’è quest’idea del desiderio, un’idea che dà voglia di avere altre idee.
Io credo sempre che i cambiamenti arrivano dove sono più forti i momenti di resistenza. Dove più c’è oppressione c’è anche più forza di resistenza, forse è anche questo il motivo per cui il cinema borghese, e il cinema più sentimentale, innova poco.
Si parla delle paure dei bambini nel film: da bambina aveva paura di qualcosa?
Avevo paura di tutto praticamente, tanti degli elementi del film ricordano molto della mia infanzia, per esempio gli spazi sono ispirati a ricordi della mia infanzia: l’esterno è proprio girato nella città in cui sono cresciuta. Anche la casa che è costruita proprio in studio è basata proprio su ricordi, e ha molte caratteristiche di quelle che erano le case delle mie nonne. Ho cercato di ricreare una sorta di intimità dello spazio, dell’infanzia stessa, ed è uno spazio e un tempo che non ha una connotazione precisa, io volevo che un bambino degli anni ’50 del secolo scorso e un bambino del 2021 potessero vivere e riappropriarsi di questa storia. L’idea era di lavorare su queste paure, paure dell’infanzia, una delle paure più forti che pervade questo film è la tristezza degli adulti. C’è un unico mostro, questa pantera nera, che simboleggia un po’ tutte le nostre paure, e poi volevo che fosse un’ombra fabbricata da un essere umano, perché i bambini spesso credono che queste paure, questi mostri siano gli esseri umani, i grandi che entrano in scena.
Com’è stato girare un film durante la pandemia?
Sicuramente ci sono molti protocolli da seguire e da integrare durante la lavorazione. Da questo punto di vista questo film ha creato meno problemi nel senso che è stato comunque girato in studio, pochi attori, pochi livelli di interazione fisica. Tuttavia è stato comunque qualcosa di diverso dal solito, io dico spesso che girare un film è una sorta di lockdown personale in qualche modo, e attraverso questo mondo vuoto in realtà riesci a ricreare qualcosa. Questa volta il mondo era veramente vuoto, il mondo intorno a noi; quindi quando eravamo li davanti alla cinepresa, il solo fatto di veder togliere una mascherina, di vedere un volto, sicuramente è stata un’esperienza di grande tensione emotiva. Nel film ci sono tante immagini che sono cariche di questi momenti: proprio questo film così atemporale in realtà è così caratterizzato del momento che abbiamo attraversato.
Il cinema può essere uno spazio sicuro? In cui creare intimità e sorellanza?
Io ho fatto dei film in questo modo, ma ho fatto anche altri film per vivere questo sogno, questa immagine, l’idea di poter ricreare questa comunità fraterna: è un’utopia del cinema. Si fanno dei film per vivere determinate idee, oltre che portarle nel mondo.