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It: recensione del film tratto dal capolavoro di Stephen King
È indubbiamente un buon periodo per essere al tempo stesso cinefili e appassionati dei romanzi di Stephen King. Solo nello scorso anno, hanno visto la luce il remake di Pet Sematary, il film originale Netflix Nell’erba alta (tratto dall’omonimo racconto) e la miniserie televisiva The Outsider, per non parlare del fatto che il periodo che stiamo vivendo ha più di un punto di contatto con l’angosciante scenario de L’ombra dello scorpione. Il 2019 è però stato anche l’anno dell’uscita di It – Capitolo due (qui la nostra recensione), secondo episodio del racconto sui celeberrimi Perdenti di Derry. Abbiamo quindi deciso di fare un passo indietro e parlare del primo capitolo di It del 2017, in cui i principali avversari del temibile Pennywise sono degli agguerriti adolescenti.
Come per la seconda parte, la regia è di Andrés Muschietti, mentre a interpretare i giovani protagonisti sono Jaeden Lieberher (Bill Denbrough), Sophia Lillis (Beverly Marsh), Finn Wolfhard (Richie Tozier), Jeremy Ray Taylor (Ben Hanscom), Jack Dylan Grazer (Eddie Kaspbrak), Chosen Jacobs (Mike Hanlon) e Wyatt Oleff (Stan Uris). A dare volto e corpo al clown Pennywise è invece lo svedese Bill Skarsgård.
A fronte di un budget di circa 35 milioni di dollari, It ha conquistato oltre 700 milioni di dollari al box office, aprendo così la strada al suo seguito, che si è però fermato a “solo” 473 milioni di dollari di incasso, contro un budget di poco inferiore agli 80 milioni.
It: i Perdenti di Derry
Ci troviamo nell’ottobre del 1988, nell’immaginaria cittadina di Derry, nel Maine. Georgie Denbrough approfitta della pioggia per scendere a giocare in strada, con addosso un impermeabile giallo e in mano una barchetta di carta fabbricata per lui da suo fratello Bill. L’orrore si nasconde però dietro l’angolo, o più precisamente dentro un tombino gonfio di pioggia. Una spaventosa entità maligna, che si presenta come il clown Pennywise, adesca e successivamente divora il povero Georgie. Mesi dopo, Bill cerca di superare il lutto grazie alla compagnia dei suoi coetanei.
Per combattere contro una banda di bulli di città, capitanata da Henry Bowers (Nicholas Hamilton), Bill forma insieme a Richie, Eddie, Stanley, Beverly, Ben e Mike il cosiddetto Club dei Perdenti, ragazzi messi ai margini dai coetanei, ma che con il passare del tempo sviluppano un forte spirito di gruppo. I ragazzi diventano a loro volta oggetto delle minacce di Pennywise, che si presenta a loro in tante emanazioni, spaventandoli a morte. Indagando sulla storia di Derry, i Perdenti apprendono dell’esistenza di un essere maligno chiamato It, che ogni 27 anni torna a mietere vittime in città, soprattutto fra i bambini. Puntando sulla loro coesione, i ragazzi decidono di andare a scovare It nel suo nascondiglio, per ucciderlo e porre fine alle sue malvagità.
It: fra revival anni ’80 e fedeltà al romanzo di King
Nell’adattare per il grande schermo un’opera letteraria, in particolare un romanzo monumentale e determinante per la formazione di molti cinefili come It, è difficile trovare un’ottimale alchimia fra fedeltà al testo, necessari tagli e auspicabili modifiche. Fin dallo spaventoso incipit, ricalcato dalle pagine del libro, appare chiaro che la strada scelta da Muschietti è quella di aderire il più possibile al romanzo, tradendolo solo in alcuni particolari risvolti e suscitando così l’immancabile straniamento di una fetta consistente degli appassionati di King. La modifica più evidente è certamente l’epoca di ambientazione di questo primo capitolo. Non gli anni ’50 che hanno segnato l’infanzia dell’autore del libro, ma gli anni ’80, che hanno invece dato i natali a molti degli spettatori odierni.
Una scelta dettata dalla volontà di ambientare ai giorni nostri il secondo episodio It – Capitolo due, ma soprattutto dal desiderio di cavalcare l’onda di revival degli eighties, portata al successo planetario dalla celebre serie Netflix Stranger Things. Lo slittamento temporale adempie perfettamente al suo compito, e ci troviamo così davanti a un piacevole amarcord delle mode e dei fenomeni di costume dell’epoca, esaltato da una regia che strizza ripetutamente l’occhio a livello visivo a film di culto dell’epoca, come Stand by Me – Ricordo di un’estate e I Goonies.
Uno sfondo da un lato apprezzabile e dall’altro leggermente posticcio, per un’opera che ha l’arduo compito di replicare l’immaginario di King, e la sua inimitabile abilità nel raccontare le gioie e i misteri dell’infanzia, confrontandosi implicitamente anche con l’omonima serie televisiva di Tommy Lee Wallace del 1990, fonte di paura e incubi per i bambini di allora, ma che oggi mostra evidentemente la corda e appare invecchiata decisamente male.
I Pennywise a confronto
It salvaguarda lo spirito della pagine di King, abbracciando maggiormente la dimensione di avventuroso racconto di formazione e mettendo in secondo piano la componente puramente horror, affidata alle sporadiche ma incisive apparizioni di Pennywise. Proprio l’operato di Skarsgård nei panni dell’agghiacciante clown finisce inevitabilmente sotto la lente di ingrandimento degli spettatori, anche per l’immancabile confronto col lavoro di Tim Curry, il maggiore punto di forza della miniserie.
Dove Curry infondeva una sfumatura paradossalmente umana a Pennywise, dando vita a un confronto verbale e psicologico con i Perdenti, vittime di burle e derisioni, Skarsgård lavora invece sulla voce, con il suo clown che affabula i suoi bersagli con tono beffardo ma ammaliante. Scelta che avvicina questa trasposizione cinematografica al romanzo, donando allo spettatore un mostro genuinamente terrorizzante, esaltato da un trucco marcato e da costumi particolarmente ricercati, ma privandolo al tempo stesso di quel retrogusto giocoso e ironico che aveva contribuito a scolpire nell’immaginario collettivo il Pennywise di Curry.
Dove It funziona molto meglio rispetto all’operato di Tommy Lee Wallace è invece indubbiamente nel casting dei piccoli protagonisti e nella loro caratterizzazione. Mentre gli interpreti della prima parte della miniserie non spiccavano per incisività ed espressività, in questo caso abbiamo alcuni dei migliori giovani attori in circolazione. Ci riferiamo a Finn Wolfhard, già apprezzato in Stranger Things per la sua notevole parlantina e per la sua naturale comicità, messa al servizio del personaggio di Richie, e in particolare alla bravissima Sophia Lillis, che restituisce a Beverly Marsh tutto il suo carisma e la sua centralità all’interno dei Perdenti. Beverly diventa così il perno di una narrazione che indugia a più riprese su alcuni dei temi più importanti del racconto, come la solidarietà fra emarginati e la capacità di trarre forza dalle difficoltà che la vita ci presenta.
It: un fedele e rispettoso adattamento
Come già avvenuto per la miniserie, i puristi del libro potrebbero faticare a digerire alcune delle scelte operate in fase di sceneggiatura. Spicca soprattutto la decisione di escludere dal racconto la Tartaruga, entità benigna che i lettori di King conoscono in quanto principale avversaria di It, la cui presenza è qui limitata a un paio di strizzate d’occhio, ininfluenti ai fini della trama. Una scelta controversa e perpetrata anche dal secondo episodio, ma parzialmente compensata dall’inserimento del celeberrimo rito di Chüd, con il quale viene fatta chiarezza sull’origine dell’essere maligno. Il montaggio di Jason Ballantine, efficace nel dare ritmo al racconto per buona parte della sua durata, diventa un po’ troppo visibile nel corso dello scontro finale fra It e i Perdenti, dando vita a una brusca conclusione, che mal si accorda con un’opera che supera abbondantemente le due ore di durata.
Nonostante gli inevitabili tagli e i necessari adattamenti, anche dopo qualche anno dall’uscita in sala resta però la sensazione di essere di fronte all’adattamento che ha saputo intercettare meglio lo spirito dell’opera di King, pur eccedendo talvolta nella strizzata d’occhio e nell’omaggio fine a se stesso. Grazie a Muschietti, riviviamo infatti la magia dell’infanzia e riusciamo a entrare in empatia con una storia universale di lotta fra Bene e Male e di reciproca assistenza fra deboli e oppressi, assaporando nuovamente una piccola parte della magia di quel meraviglioso trattato sul passaggio dall’infanzia all’adolescenza, e successivamente alla maturità, che è It di Stephen King.
Le basi (non del tutto sfruttate) per il secondo capitolo
Difficile per i fan delle opere del Re non provare un brivido di fronte a quell’evocativo patto di sangue finale, che suggella questo riuscito adattamento e pone le basi per la seconda parte della storia. Visti i più che dignitosi risultati raggiunti in questo episodio, aumentano le perplessità nei confronti del seguito, che nell’affannosa ricerca del minor numero possibile di tagli al romanzo finisce per mettere in secondo piano l’introspezione dei personaggi, esaltata invece dal regista in questo It.
In un panorama horror mainstream troppo spesso concentrato sulla ricerca di sterili jumpscare, ben vengano opere come questa, che, pur all’interno di una cornice preconfezionata per compiacere i nostalgici, riesce a mettere in scena emozioni universali, cercando la paura non attraverso la sorpresa, ma con un’attenta costruzione dell’intreccio e dei personaggi. E in fondo cosa si può chiedere a un adattamento di un’opera così importante per tutti noi, se non di trattare con rispetto il materiale di partenza, senza prostrarsi passivamente ad esso?
Overall
Verdetto
Muschietti riesce nell’arduo compito di rendere giustizia al libro di King, minimizzando i tagli e tradendo il materiale originale quando necessario, eccedendo però con qualche ammiccamento di troppo ai nostalgici degli anni ’80.
News
Scream (2022): recensione del film di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Dopo la commedia dell’orrore Finché morte non ci separi, Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett si confrontano con una pietra miliare del cinema horror come Scream, dando vita a quello che, come enunciato dagli stessi protagonisti del film, si presenta come un vero e proprio “requel” della serie, a metà strada fra un classico sequel e un vero e proprio reboot. Un’attitudine rimarcata dal titolo: nonostante sia a tutti gli effetti il quinto capitolo della serie creata dal genio di Wes Craven, Scream porta infatti lo stesso nome del capostipite, senza il suffisso del numero 5.
Sono passati 10 anni da Scream 4 e dagli eventi in esso raccontati. Il mondo è totalmente cambiato, e con lui il cinema horror, indirizzato verso una svolta più autoriale dai vari Jordan Peele, Robert Eggers e Ari Aster. A non cambiare è però la fascinazione della cittadina di Woodsboro, teatro della ripetuta odissea personale di Sidney Prescott e delle persone a lei care. In uno dei tanti squisiti rimandi al primo film della serie, assistiamo così a una riproposizione della leggendaria intro con protagonista Drew Barrymore, che vede stavolta al centro delle attenzioni dell’iconico ghostface Jenna Ortega e la sua Tara Carpenter (il cui cognome è un chiaro omaggio a un maestro del cinema horror).
Tara ama Babadook, è inseparabile dal suo smartphone ed è forte di un sistema di sicurezza che le permette di bloccare istantaneamente le porte di casa, ma come quella ragazza del 1996 si ritrova sola e indifesa davanti all’orrore e alla follia. È l’inizio di una nuova ondata di terrore e violenza che, come da tradizione della serie, è anche uno spunto di riflessione sullo stato del cinema e sui vizi e le ossessioni degli stessi cinefili.
Il nuovo Scream è il “requel” che ci meritiamo
Il nuovo Scream sfrutta abilmente il canovaccio dei capitoli precedenti, adattandolo al panorama dell’intrattenimento contemporaneo. Abbiamo infatti ancora un impianto da giallo (chi è l’assassino? O meglio, chi sono gli assassini?) applicato a dinamiche da horror adolescenziale, con immancabili feste e un gruppo di giovani protagonisti uno più ambiguo dell’altro. Non manca ovviamente la rivisitazione delle regole del cinema horror, proposte nel primo film dal personaggio di Randy Meeks e aggiornate nei vari sequel. È proprio a margine di queste regole che Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett mettono in scena una pungente satira del cinema contemporanea, senza paura di fare nomi e cognomi.
Emblematica è la menzione a Stab 8, ottavo capitolo della serie fittizia basata sugli eventi dei film di Scream, odiato dai fan perché il regista (lo stesso di Cena con delitto – Knives Out) si sarebbe macchiato di mancanza di rispetto nei loro confronti. Non è difficile unire i puntini e leggere in questo passaggio un attacco ai fan di Star Wars, che nel 2017 hanno riversato tutto il loro odio su Rian Johnson, regista appunto di Cena con delitto – Knives Out e colpevole secondo loro di aver stravolto il canone della saga nell’ottavo episodio Star Wars: Gli ultimi Jedi.
In un’ottica più generale, è l’intera industria hollywoodiana a essere messa sul banco degli imputati e definita senza metti termini “priva di idee”. Proprio i recenti progetti legati a Star Wars, insieme a Ghostbusters: Legacy e alla nuova trilogia di Halloween (protagonista anche di un obbrobrioso errore di adattamento su Jamie Lee Curtis nel doppiaggio italiano), diventano l’oggetto di un’analisi sui sequel moderni, che richiedono immancabilmente la presenza dei vecchi protagonisti delle saghe e di nuovi e più giovani personaggi a loro legati da vari rapporti di parentela.
Le scelte di casting
Da fine opera meta-cinematografica, il nuovo Scream rispetta lo spirito della serie e si immerge nella stessa critica che porta avanti, utilizzando proprio le parentele fra vecchi e nuovi protagonisti come pietra angolare su cui imbastire la trama. Qui cominciano le note dolenti di questo requel, in quanto nessuno dei nuovi personaggi (dalla già citata Jenna Ortega a Melissa Barrera) dimostra di avere il carisma necessario per ereditare il peso di una serie che si tramanda dal 1996, anche attraverso le demenziali parodie degli Scary Movie. Non è un caso che Scream ingrani la marcia proprio quando entrano in scena volti noti come Neve Campbell, David Arquette e Courteney Cox, chiamati a guidare la riscossa contro lo strapotere di Ghostface, autore della sua immancabile mattanza.
In ottica meta-cinematografica, spiccano però alcune scelte di casting, come quelle di Dylan Minnette (già visto in Tredici), Mikey Madison (interprete di una delle seguaci di Charles Manson in C’era una volta a… Hollywood) e quella di Jack Quaid, figlio di Meg Ryan e Dennis Quaid ma soprattutto identico al giovane Joshua Jackson, interprete di Pacey in Dawson’s Creek. Come sempre, il Diavolo si nasconde nei dettagli: la mente dietro alla serie teen drama (esplicitamente citata in questo capitolo) e alla saga di Scream è sempre la stessa, cioè il talentuoso Kevin Williamson, in questo caso solamente produttore esecutivo.
L’ambizione di questo requel è chiaramente quello di dare un nuovo impulso a una serie che (almeno sul grande schermo) era ferma dal 2011. Restano i dubbi sull’effettiva possibilità da parte delle nuove leve di portare sulle proprie spalle il futuro di Scream. Probabilmente, per dare un seguito a questa pregevole operazione ci sarà ancora bisogno delle due eroine Neve Campbell e Courteney Cox.
L’eredità di Scream
Non stupisce che anche il quinto capitolo di una saga genuinamente e orgogliosamente derivativa poggi interamente sulle solide spalle dei precedenti episodi, sulla cultura pop contemporanea e su dinamiche ben consolidate. In particolare, i fan della prima ora del gioiello di Wes Craven e Kevin Williamson riconosceranno situazioni, inquadrature e dialoghi già messi in scena nei precedenti capitoli, e non faticheranno a intuire chi possa nascondersi dietro la maschera di Ghostface. A sorprendere di questo Scream non è però la soluzione del mistero, quanto piuttosto la motivazione alla base dell’ennesima scia di sangue a Woodsboro, che anche in questo caso punta severamente il dito contro l’estremismo e la tossicità di alcuni fan.
Scream non si è mai esaurito nella violenza in scena (in questo caso più esplicita che mai), ma ha sempre tracimato fuori dallo schermo. Questa serie non è solo uno spettacolo da guardare, ma un’opera da cui farsi guardare, lasciando che vengano a galla le nostre criticità e i nostri punti deboli. Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett colgono perfettamente questo spirito, consegnandoci un requel perfettamente al passo con questa confusa epoca, che utilizza ancora una volta l’intrattenimento e la paura per dare vita a un nuovo e aggiornato compendio sull’industria cinematografica e seriale.
Scream è nelle sale italiane dal 13 gennaio, distribuito da Eagle Pictures.
Overall
Verdetto
Il quinto capitolo di Scream è un “requel” perfettamente al passo coi tempi, capace di cogliere lo spirito della serie creata da Wes Craven e di portare avanti l’ennesima dura critica all’industria hollywoodiana.
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Matrix Resurrections: recensione del film di Lana Wachowski

In Matrix Resurrections, dopo anni di assenza dagli schermi troviamo nuovamente Thomas Anderson (Keanu Reeves) alle prese con la sua vita. Ce lo ricordiamo come quell’informatico nottambulo, un outsider, un nerd impacciato e timido che nasconde i suoi chip illegali tra le pagine di Simulacri e simulazione, un uomo alla ricerca di risposte, vacue, improbabili, sgualcite, confuse, perché confuse sono pure le domande. Oggi come allora, Lana Wachowski ci porta in un presente esoscheletrato da fitte menzogne, diviso in un mefitico binarismo esiziale, e ci conduce in una realtà ben diversa, eppure in fondo sempre la stessa.
Matrix è qui, è ancora attorno a noi, sempre, e Neo la percepisce, ora come allora, solo che oggi assume le pillole blu per poterci vivere in maniera più o meno concreta, preferendo l’amnesia, la disconoscenza, alla verità. Ma quelle pillole sono solo un palliativo, la sua scelta narcotica, che per lui assumono la forma di una postura implicita, di una spinta inconscia, un istinto detentivo che non ha chiavi di accesso.
Neo è un gamer designer di successo, la sua vita passata è stata trafugata, trasfigurata e riscritta in questa nuova Matrix, il senso dei suoi ricordi hanno trovato via di fuga nella – presunta – fantasia di un’anima geek. Matrix ora è un gioco, un videogioco in tre capitoli. Tutti conoscono Morpheus, Trinity, cos’è Zion e quali sono le straordinarie capacità dell’eletto. Tutti hanno giocato una volta nella loro vita a Matrix, e nelle sue versioni ludiche l’eletto è la simulazione di una fantasia, l’illusione speculare del tuo io digitale. Non esistono proiezioni mentali, verità stagnanti o collisioni digitali, ma una iperrealtà che inghiotte tutto e smargina passato, presente e futuro.
Matrix Resurrections: il ritorno di Neo
Neo è un anima che vaga in loop, che si divide tra il lavoro e sedute dall’analista, e la sua vita è un infinito deja vu, un errore sistemico che si infrange ogni giorno, e che ogni giorno viene ricostituito, tanto vicino da potersene divincolare ma lontanissimo da poterlo realizzare. C’è un gioco di assoluti, di distanze e di assenze che abitano questa nuova (ir)realtà: Neo sopravvive solo grazie alla vicinanza a Tiffany (Carrie-Anne Moss), che qui assume le sembianze di una donna sposata senza alcun ricordo del suo passato, e grazie ai suoi ricordi, che in maniera parzialmente inconsapevole, ha la possibilità di rivivere attraverso la sua creatura, ed è Matrix il vittoriale della sua vita passata, custode della sua vita ma il riflesso della sua vertigine.
In questo sonno concettuale, esistenziale e simbolico, che si staglia nel suo cammino il desiderio di riappropriazione, non solo della sua vita, ma di nuovi orizzonti, che possano attraversare sia Matrix sia il bastione umano abitato da Niobe, Io. Le immagini, ora contratte, ora sottratte, sono abitate da nuove consapevolezze, da nuovi obiettivi, che non sono guerre, il potere o le macchine, ma le alleanze, l’indulgenza e l’amore. L’amore tra Neo e Trinity torna in modo detonante ed è proprio ciò che fa funzionare Matrix Resurrections, poiché come pubblico e come spettatrici siamo cresciute e cresciuti con il loro amore e con il loro esempio; tornare a Neo e Trinity è stato come tornare a casa.
Matrix è il simbolo del binarismo
L’intero Matrix Resurrections ci parla di come Neo e Trinity hanno bisogno di ritrovarsi, di ricongiungersi perché non possono esistere l’uno senza l’altro, un tema che trattiene un senso profondo e struggente dato che Lana Wachowski ha scritto Matrix Resurrections come un modo per far fronte alla morte dei propri genitori. Neo e Trinity insieme sono tutto ciò che può portare la pace nel mondo reale, il loro amore è talmente potente da portare pace a tutti.
Non c’è mai banalità e melò in questo mondo, ma alchimia, ipersimbolismo ed empatia. Un nuovo mondo che Lana Wachowski ha contribuito a incarnare, a secolarizzare, un mondo che si sottrae dalle impalcature della binarietà, e ci conduce in un universo da ricostruire, assieme, senza strutture, senza schemi, che dichiara in maniera totale e chiara che il sistema che noi conosciamo, questo sistema è fallito, e che l’errore di sistema è qui davanti a noi e ci abita tutti i giorni.
Se nei primi tre capitoli le Wachowski seminano indizi della loro identità e sensibilità trans, con Neo che ha una disforia e Matrix che è il simbolo del binarismo, con Matrix Resurrections l’intento di Lana Wachowski è attraversare nuovamente l’infinito che esiste tra maschio e femmina, e non solo attraverso il corpo, ma attraverso il mondo: non è più solo il corpo ad essere protagonista, nella sua transizione, ma è il mondo, come corpo da riattivare, da redimere, da rigenerare, da rieleggere a epitome ideologica, materiale espressivo di un mondo che va cambiato, che cambia, che va riallineato con ciò che sente di essere.
Matrix Resurrections: la rivendicazione di uno spazio metafilmico, narrativo ed estetico
System Failure è la dichiarazione più potente di Lana e Lilly Wachowski: era il 1999 e il mondo non era né pronto né capace di comprendere la complessità della vita e delle ragioni delle due sorelle. Affermare che Lana Wachowski con questo nuovo capitolo volesse ricreare l’empirismo di Matrix e riattivarne la leggenda è abbastanza disinteressante; quel che ci dicono le immagini è che i capitoli precedenti sono infingimenti videoludici, proiezioni, repliche il cui mito è scomparso. Neo non può più volare, i suoi poteri sono quasi andati perduti, anche i cattivi hanno quasi perso la speranza di potersi rivaleggiare sulla sua leggenda, perché è perduta sì, come lacrime nella pioggia.
Quel che ci lascia questo nuovo capitolo è la rivendicazione di uno spazio, (meta)filmico, narrativo ed estetico, la cui tensione è superare se stesso, superare il suo genere e anche il suo divismo. Oggi, forse, siamo più capaci di recepire il messaggio delle sorelle, il loro sogno, e non sonno, concettuale, la loro urgenza spirituale, e Lana Wachowski, oggi e sempre, ci mostra quanto un nuovo inizio sia possibile, necessario, e rifare Matrix e plasmarla sotto nuovi cieli, per usare una parola tanto cara all’agente Smith, sia inevitabile.
Matrix Resurrections è disponibile nelle sale italiane dall’1 gennaio, distribuito da Warner Bros.
Overall
Verdetto
Matrix Resurrections è la rivendicazione di uno spazio (meta)filmico, narrativo ed estetico, che vuole oltrepassare se stesso, superare il suo genere e anche il suo divismo. Un potenziale nuovo inizio, ma anche la perfetta chiusura del cerchio della serie.
News
House of Gucci: recensione del film con Lady Gaga e Adam Driver

Sono due le vie principali per approcciarsi a House of Gucci, entrambe legittime e comprensibili. La prima vede l’84enne Ridley Scott nuovamente impegnato con una pagina nera della storia italiana a 4 anni da Tutti i soldi del mondo, ancora poco ispirato e di nuovo alle prese con una svogliata caricatura del nostro Paese. Da questo punto di vista, nonostante il sontuoso cast a disposizione (Lady Gaga, Adam Driver, Al Pacino, Jared Leto, Jeremy Irons e Salma Hayek su tutti), House of Gucci è un’opera pacchiana ed estremamente superficiale, costantemente in bilico fra il trash involontario e la più totale inconsistenza, mai realistica o fedele alla vera storia di Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci.
In alternativa, possiamo dare fiducia a un cineasta che con opere del calibro di Alien e Blade Runner ha scritto pagine indelebili della storia del cinema, e che appena pochi mesi fa ha dato vita con The Last Duel a una sublime analisi delle società contemporanea mascherata da dramma storico. Seguendo questa strada, possiamo cercare di capire cosa ha spinto il regista britannico a dare vita a un lavoro così apparentemente bizzarro e sghembo e cosa sottende la sua messa in scena, più vicina a una farsa che a una rigorosa ricostruzione. Per quanto ci riguarda, noi abbracciamo con convinzione questa seconda ipotesi, pur comprendendo chi invece vedrà nell’ultima fatica di Scott un racconto profondamente respingente.
House of Gucci: l’autodistruzione di una famiglia

A Ridley Scott non interessa mettere in scena una fedele ricostruzione di ciò che è o di ciò che è stato. Al netto di qualche eccezione (Thelma & Louise, American Gangster, Nessuna verità) il nostro ha sempre raccontato il mondo allontanandosene e spaziando addirittura in altre epoche o in altri pianeti. La storia è sempre una pagina bianca, da riempire in base alle sue necessità. House of Gucci non fa eccezione, spronandoci continuamente a prendere atto del fatto che l’attinenza di ciò che vediamo su schermo con la realtà è scarsissima. Il regista evidenzia il suo modus operandi fin da subito, ambientando il primo incontro fra Patrizia Reggiani e il rampollo della famiglia Gucci nel 1978, quando i due erano invece sposati da ben 6 anni.
La prima di una lunga serie di distorsioni della realtà, che abbraccia la musica (l’inclusione nella soundtrack de La ragazza col maglione di Pino Donaggio e Sono bugiarda di Caterina Caselli, rispettivamente datate 1962 e 1967), la geografia italiana (luoghi di Milano continuamente scambiati con altri di Roma) e si spinge fino alla stessa biografia dei protagonisti, con la cancellazione dal racconto della nascita della seconda figlia della coppia, Allegra. Ma a esplicitare la natura più intima dell’operazione sono soprattutto i personaggi, che gli interpreti spingono ben oltre i limiti del macchiettistico.
Dal Paolo Gucci di Jared Leto, grottesco artista fallito e incredibilmente ingenuo uomo d’affari, passando per suo padre Aldo (un Al Pacino che gioca apertamente con il suo passato nella saga de Il padrino), fino ad arrivare all’uomo che li scalzerà dal trono di una delle più prestigiose case di moda, cioè Maurizio Gucci, che Adam Driver caratterizza prima con totale passività e poi con spregevole cinismo: una galleria di relitti umani, simboli di una famiglia disfunzionale che procede spedita verso l’autodistruzione.
Lady Gaga: il falso dentro il falso
In questa celebrazione dell’artificioso e della falsità, spicca la scheggia impazzita di Patrizia Reggiani, che lentamente mina dalle fondamenta l’impero dei Gucci, innescando il processo che porterà l’azienda ad allontanarsi definitivamente dalle mani di chi l’ha creata. Lady Gaga in House of Gucci è il falso dentro il falso, quindi paradossalmente la quintessenza del vero, solo parzialmente sporcata da un impresentabile accento italiano che, insieme agli omaggi musicali a Luciano Pavarotti e Giacomo Puccini, contribuisce alla folcloristica rappresentazione dell’Italia. Con una performance di segno opposto alla fragile naturalezza mostrata in A Star Is Born, la pop star si mangia letteralmente il film, illuminandolo con sguardi incendiari alternati a sordide macchinazioni, mascherate da cortesie. In bilico fra bieco arrivismo e metafora dell’emancipazione femminile, la sua Patrizia Reggiani è una burattinaia che si schianta a terra insieme ai suoi burattini, simbolo della fragilità di un mondo fondato sull’apparenza.
La sua stessa parabola esistenziale è un inno al più fiero e consapevole trash: il suo stretto rapporto con la sensitiva e futura complice Pina Auriemma (Salma Hayek, che nella vita reale è la moglie di François-Henri Pinault, CEO del gruppo Kering che controlla attualmente Gucci: riuscite a immaginare una scelta di casting più provocatoria?), la sua rovinosa caduta e il contatto con i sicari a cui affiderà l’incarico di uccidere il marito, in una scena che sarebbe stata perfetta per una parodia di quart’ordine di un gangster movie. Ulteriori tasselli di un mosaico che celebra il disfacimento del lusso e dello sfarzo, lentamente sepolti da una coltre di incompetenza, imbrogli e inaffidabilità.
House of Gucci: una tragicomica operetta shakespeariana
A voler ben guardare, il senso di House of Gucci sta tutto nel sagace passaggio in cui Patrizia Reggiani scopre prima il giro di contraffazione dei capi Gucci, per poi rendersi conto, imbeccata dallo zio del marito, che anche questo sottobosco di emulazione contribuisce agli affari della famiglia. Una presa di coscienza che implicitamente inserisce anche la stessa Patrizia, da sempre dedita alla falsificazione di se stessa e del marito in ottica speculativa, in uno schema di squallore e decadenza, inevitabilmente destinato a divorare se stesso.
Con questa tragicomica operetta shakespeariana, Ridley Scott ragiona allo stesso tempo sull’industria (cinematografica e non), sempre più lontana dalle grandi dinastie e dal loro bagaglio di esperienza umana e lavorativa, sempre più direzionata verso i grandi gruppi e le loro fini operazioni di marketing e rebranding. Esplicativa in questo senso è proprio la didascalia finale, che con amara lucidità ci ricorda che nessun membro superstite della famiglia Gucci è attualmente coinvolto nell’azienda. Grandi gruppi che con abili colpi di mano sottraggono aziende familiari dai legittimi proprietari, approfittando della loro posizione di forza e della fragilità di una generazione ormai superata: sotto quintali di trucco prostetico, svariati siparietti di imbarazzante miseria umana e una messa in scena che ci porta costantemente fuori dal racconto, Ridley Scott riesce nuovamente a fare cinema politico e pungente, parlando ancora del presente attraverso il racconto di un artefatto passato.
House of Gucci: il funerale di un’epoca
In questo circo di maschere discordanti, Ridley Scott centellina anche momenti di grande cinema, come i battibecchi fra Paolo e Aldo Gucci (quasi una rivisitazione del rapporto fra Fredo e Michael Corleone) e il mortifero dialogo fra Patrizia Reggiani e l’amante di Maurizio. Sprazzi di luce che, proprio come avviene nella dimora di Rodolfo Gucci, simulacro di un passato che non esiste più, illuminano un’opera dominata dall’oscurità e dalla mestizia, da cui non si salva nessuno. Non stupiscono quindi le dure e ripetute prese di posizione contro House of Gucci da parte dei reali protagonisti della vicenda, che accusano Scott di scarsa aderenza alla realtà.
Come Martin Scorsese in The Irishman, il regista britannico ha dato vita, senza nessun compromesso, a una cerimonia funebre di un’epoca, di un modo di fare affari e di un approccio all’immagine, infischiandosene totalmente del settore a cui appartengono i suoi protagonisti (la moda) per concentrarci su miseri e altamente simbolici ritratti umani. Forse tutto questo non basta a soddisfare tutti, ma per quanto ci riguarda è sufficiente per affermare che possiamo ancora contare su un grande autore, capace di raccontare il contemporaneo con opere che lasciano sempre l’amaro in bocca e la sensazione di essere stati colpiti dove fa più male.
House of Gucci è nelle sale italiane dal 16 dicembre, distribuito da Eagle Pictures.
Overall
Verdetto
Ridley Scott mette in scena il funerale di un’epoca e di un modo di approcciarsi all’industria, dando vita a un racconto che rifiuta categoricamente il realismo per concentrarsi sulla miseria umana dei propri protagonisti, simboli di un mondo che non esiste più.