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La strada: recensione del capolavoro di Federico Fellini

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Dario Fo divideva il tempo comico in due categorie, la comicità dettata dal sorriso frivolo, un’ironia leggera come quando si scivola, si cade, come quando un clown mette un piede in fallo e allieta il pubblico con uno scivolone plateale, e una comicità differente, parallela, dai sorrisi sghembi, più seria, sagace, ragionata. La strada, film del 1954 che valse a Fellini l’Oscar per miglior film straniero, trattiene dentro sé lo spessore del clown e l’inconsistenza del saltimbanco, la clandestinità di una carovana e la sedentarietà di uno chapiteau, di un tendone da circo. Un immenso manifesto della commedia d’arte, la genesi dell’indagine poi perpetuata con I clown, Le notti di Cabiria e .

“Un colpo di dadi non abolirà mai il caso.”
Stéphane Mallarmé

Prima di qualsiasi considerazione va fatta una traslazione temporale, doverosa e nostalgica. Prima ancora che cominciasse Fellini o chi prima di lui ad avvicinarsi alle tematiche circensi, esisteva un nuovo modo di fare spettacolo, un modo che oscillava tra la commedia dell’arte e il nouveau cirque, durante il quale, nella seconda metà del ‘700, si insediò un uomo, un tale che avrebbe recuperato in toto il senso della parola circo: Charles Hughes.

Hughes aprì il Royal Circus e da lì, in quegli stessi quadrivi, Joe Grimaldi debuttò e creò quasi nell’immediato un figurante, che era sia giocoliere, giullare, musico, illusionista e acrobata, tutto allo stesso tempo: il clown. Un essere che si distaccò dalla maschera di Arlecchino e trovò una dimensione personale in alcuni personaggi di contorno delle opere di Shakespeare, in un modo più umile, più sciocco. Fu il capostipite del cosiddetto clown bianco, che nasceva nei teatri ma che trovava respiro anche nell’arte di strada, con il volto bianco, il copricapo a pan di zucchero e, solo in seguito, col naso rosso o le sopracciglia nere molto marcate.

Inizialmente fu un personaggio messo da parte, relegato nei soli ruoli da insulso buffone di corte, senza spessore, senza un’anima. Ma ciò fu smentito soprattutto agli inizi dello scorso secolo, quando nacque l’ultimo vero clown, secondo alcuni il più grande clown di tutti i tempi: Grock. Un genio assoluto, che pose le basi di tutto ciò che venne rappresentato nel ‘900, con i suoi variegati strumenti, il suo violino o il pianoforte a coda riusciva a plasmare un canovaccio ineguagliabile, come se si muovesse secondo regole e tempi diversi dai nostri, uno spettacolo grottesco e tragico.

Nel proseguimento della recensione verranno rivelati passaggi significativi della trama e del finale de La strada, si sconsiglia quindi la lettura a coloro che non hanno ancora visto il film.

La strada proviene da tutto questo mondo, e da molto altro. La trama semina il suo sguardo su Gelsomina (Giulietta Masina) e su Zampanò (Anthony Quinn). Lui, forzuto e scontroso ominide che si esibisce clandestinamente per le vie dei paesi attraverso monotone prove di forza. Lei, una presenza angelica e fluttuante, che si unisce al suo peregrinare per volere di sua madre, in seguito alla morte della sorella, che faceva compagnia a Zampanò durante i suoi nomadismi.

Gelsomina non è entusiasta di dividere le sue giornate con una persona così rozza e bislacca, ma per necessità economiche si lancerà in un viaggio spaesante, sperando in segreto e ingenuamente di potersi accattivare la buona sorte affiancando Zampanò e imparando un mestiere diverso dai doveri domestici. Gelsomina comincia così a fargli da spalla, soprattutto nei numeri comici che conseguono alla prova di forza di Zampanò finché, viaggiando per l’Italia, non incontrano un personaggio singolare: il Matto (Richard Basehart).

Lui è un acrobata, un musicista, un personaggio intriso di una comicità leggera ma non per questo superficiale. Il Matto è odiato da Zampanò, forse per la sua natura e per la sua verve, o semplicemente a causa di antichi rancori. Dopo svariate peripezie che vedono Gelsomina rivendicare una sua voce, un proprio carattere all’interno di quella bizzarra carovana, sarà proprio il Matto a ricondurla su una via ben precisa: la spinge a ritornare da Zampanò, che in verità non aveva mai realmente abbandonato e le fa comprendere che il posto che le è capitato, accanto a quell’uomo, ha un suo senso, una sua logica, incomprensibile ma reale.

La strada è denso di simbolismi

I rapporti tra i due uomini però non migliorano, anzi, dopo un litigio funesto, Zampanò finisce per uccidere Il Matto accidentalmente e, conscio e atterrito dal suo gesto, si sbarazza del suo tenero corpo inscenando un incidente automobilistico. La pellicola cambierà colori, le atmosfere disincantate saranno solo un tenue ricordo. Gelsomina, che avrà la sfortuna di assistere all’omicidio, entra in un vortice di follie e di timori dai quali non saprà più riemergere. I suoi giorni saranno un susseguirsi di pianti e lamenti, rivivrà quelle stesse scene nella sua mente, cosa che porta poi Zampanò a non riuscire più a sopportare i suoi disturbi, ad abbandonarla per strada, conducendola ad una vita di solitudine e ad un ancor più triste destino.

Zampanò, dopo anni di separazione da Gelsomina, incrocerà una signora intenta a fischiettare un motivetto tanto a lui noto: la musica che lei suonava con la sua tromba, suonata dal Matto durante il loro incontro della quale rimase per sempre invaghita. La casualità attrarrà l’attenzione di Zampanò che con curiosità chiede alla signora notizie di Gelsomina. Lui, così di stucco, apprenderà con dolore che la ragazza che suonava continuamente quelle note era morta molti anni prima. Si era lasciata morire di fame e di sete, non aveva interazioni con gli altri, non parlava, suonava solo la sua tromba.  La pellicola termina tragicamente con la figura di Zampanò, sopraffatto dal dolore e dal rimorso, che crolla al buio delle stelle e al suono delle onde del mare.

La strada trattiene dentro sé lo spessore del clown e l’inconsistenza del saltimbanco

Federico Fellini è sempre stato affascinato dal mondo circense, come anche Tullio Pinelli, co-sceneggiatore de La strada assieme al regista romagnolo. Entrambi si sono incrociati nella medesima storia, con lo stesso bisogno di narrare dei vagabondi, di certi giullari che si esibivano in spettacoli in piazza e che viaggiano con difficoltà tra un paese e l’altro. Il Pinelli racconta che vide proprio i due personaggi della pellicola, quelli che sarebbero poi diventati Zampanò e Gelsomina, su una strada che portava a Torino, intenti a tirare un carretto di tela con una sirena raffigurata sopra di essa. Fellini ascoltando quella storia la trovò perfettamente conforme e congeniale ai suoi intenti. Da quell’incontro di menti altissime vennero poste le basi di un film che sarebbe rimasto nella storia del cinema per sempre.

Fellini contemporaneamente stava girando I vitelloni, quindi la stesura del soggetto venne in un primo momento lasciata nelle mani del Pinelli, che aveva già una grande esperienza teatrale alle spalle: lui scriveva per il teatro, era abituato soprattutto a storie dal sapore tragico, cosa che Fellini temeva. I toni drammatici non li sentiva vicini alle sue corde, tant’è che Ennio Flaiano, collaboratore del film, gli scrisse di disinteressarsi alla sua realizzazione soprattutto per il timore di sfociare nei sentimentalismi e nelle eccessive falsità narrative. Ma ciò non accadde, anzi il dramma, con l’inserimento della morte del Matto, era davvero un evento cruciale se non determinante:  la morte cinematografica di due personaggi, Gelsomina e il Matto, era inevitabile sia per i fini narrativi che realistici.

Giulietta Masina è stata una delle poche donne in Italia ad incarnare la slapstick comedy

Tutti i personaggi rappresentano l’archetipo di una tipologia ben precisa di essere umano, un po’ strabordante e dalla carica simbolica. Gelsomina è l’innocenza, il candore, il Matto è la rivelazione, è la comicità e per assurdo colui che rivela La strada che Gelsomina dovrà percorrere. E quando si ritroveranno nella stessa compagnia circense ad esibirsi, il Matto come funambolo e Zampanò nel suo solito numero bestiale, convergeranno due tipologie di teatro: il teatro comico e il teatro misero.

Il primo nasce dall’intrepido vincolo di intrattenimento e stupore, mentre il secondo è la trivialità di uno spettacolo non riuscito, escogitato sempre nel medesimo modo e concluso in modo umiliante e disatteso; come nel caso in questione in cui quel nerboruto di Zampanò, porta avanti un numero sempre uguale e immutabile che il pubblico, in un frangente, non apprezzerà nemmeno, poiché distratto dalle prese in giro del Matto.

 

«Io sono ignorante, ma ho letto qualche libro. Tu non ci crederai, ma tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa. Ecco, prendi quel sasso li, per esempio.»
«Quale?»
«Questo. Uno qualunque. Be’, anche questo serve a qualcosa: anche questo sassetto.»
«E a cosa serve?»
«Serve… Ma che ne so io? Se lo sapessi, sai chi sarei?»
«Chi?»
«Il Padreterno, che sa tutto: quando nasci, quando muori. E chi può saperlo? No, non so a cosa serve questo sasso io, ma a qualcosa deve servire. Perché se questo è inutile, allora è inutile tutto: anche le stelle. E anche tu, anche tu servi a qualcosa, con la tu’ testa di carciofo.»

Gelsomina è una vertigine senza abisso

Fellini ha ispirato tanti artisti, registi, cantautori, quali ad esempio Bob Dylan che ha ricreato le atmosfere de La strada per il suo capolavoro Mr Tambourine man e tra i tanti è necessario citare anche La ragazza sul ponte di Patrice Leconte, La ballata dell’odio e dell’amore di Alex de la Iglesia, e, perché no, anche The Elephant Man e Santa Sangre.

Giulietta Masina, vertigine senza abisso, è stata una delle poche donne in Italia ad incarnare la slapstick comedy, che trovava le sue radici in geni assoluti quali Buster KeatonStan LaurelOliver Hardy, Charlie Chaplin e l’indimenticabile Grock, che a suo modo fu il precursore di questo sottogenere.

La strada è denso di simbolismi che dipingono ed evocano, Fellini lascia che essi si incuneino per sublimare la narrazione in atti sincopati ma fluidi allo stesso tempo, un vezzo dai dolci toni espressivi, che trovano terreno fertile nel cielo stellato o nel mare in tempesta. Gli stessi personaggi possono essere visti come simboli di elementi naturali: Zampanò è la terra, Gelsomina è l’acqua, mentre il Matto è l’aria.

Il Matto è il perno della pellicola, il nesso in cui Gelsomina trova conforto, trova un motivo musicale che accompagni le sue giornate, trova il suo talento da trombettista, trova un percorso da intraprendere con decisione nonostante il rapporto di odio-amore con Zampanò, e le stelle che nel film assumono un carattere dantesco vengono citate e inserite nel finale come un’epifania esistenziale, lo svelamento di una verità interiore, quella che Zampanò con il suo carattere egoriferito e burbero ha cessato di ascoltare, sacrificando Gelsomina per la sua sopravvivenza.

Fellini tratteggia magistralmente una storia d’amore

L’alter-ego del Matto non altri è che un rozzo bisonte che spacca con la forza del suo corpo una cinta di ferro, che misura la sua strabiliante forza agli occhi increduli dello spettatore di paese. Un personaggio che nonostante tutto ha una sua umanità, seppure labile e al limite dallo scomparire, che ritroverà nello sconforto e nel silenzio assoluto. La colonna sonora è stata scritta da un icona assoluta della musica di tutti i tempi, l’olimpo, un tempio inarrivabile al pari di Mozart, Bach, è solo lui: Nino Rota. Lui ha saputo impreziosire, senza adombrare, con le sue note una pellicola che aveva nello scheletro una reale catarsi, profonda, scenica, espressiva.

Fellini tratteggia magistralmente una storia d’amore, una storia che non segue linee convenzionali, essa viene rivelata solo alla fine, una favola cupa e tetra, tetra perché fragile. Tutte le vite servono a qualcosa. Gelsomina è il veicolo spirituale della pellicola, ha una sua funzione sia in vita che in morte: servirà a dare una speranza anche ad un uomo avulso da qualsiasi emotività, speranza che egli possa cambiare e scoprirsi umano, spirituale, vitale. La casualità di cui la pellicola è costellata sta tutta nelle circostanze, nelle azioni, ma sarà tutto un susseguirsi di destino e volontà, evocazioni e visioni, con cui Fellini gioca, si misura con folgorante genialità, poiché egli sapeva che per quanto la strada sia opera dell’uomo, il mondo in verità non lo è affatto. Un colpo di dadi non abolirà mai il caso.

La strada: curiosità sul film

La strada è fra i film preferiti di Papa Francesco.

Nella celeberrima scena della coda al cinema in Io e Annie, il saccente letterato con cui battibecca il personaggio di Woody Allen menziona anche La strada.

La scena della processione de La strada è ripresa in maniera estremamente somigliante ne Il padrino – Parte II di Francis Ford Coppola.

Anthony Quinn stava lavorando a un film con Giulietta Masina quando lei lo presentò a suo marito, Federico Fellini. Fellini fu immediatamente convinto che l’attore sarebbe stato il perfetto Zampanò nel suo nuovo film, che poi sarebbe diventato La strada, e lo implorò di accettare il ruolo. L’attore, che non aveva idea di chi fosse Fellini, inizialmente rifiutò, nonostante Fellini fosse insistente, assillandolo per giorni sul progetto. Poco tempo dopo, Anthony Quinn trascorse una serata con Ingrid Bergman e suo marito, il regista Roberto Rossellini. Dopo la cena, i tre videro la commedia drammatica di Fellini, I vitelloni, e fu allora che Quinn realizzò con stupore che il folle cineasta italiano che lo perseguitava da giorni era un genio.

Overall
10/10

Verdetto

La strada è un capolavoro disarmante. La storia raggiunge vette mai calpestate, le musiche e i simboli sono veicoli spirituali che circondano la pellicola rendendola un’allineamento di pianeti, una sospensione dello spazio-tempo, piena di innocenza, di brutalità e di sapori ineguagliabili.

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Scream (2022): recensione del film di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

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Dopo la commedia dell’orrore Finché morte non ci separiMatt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett si confrontano con una pietra miliare del cinema horror come Scream, dando vita a quello che, come enunciato dagli stessi protagonisti del film, si presenta come un vero e proprio “requel” della serie, a metà strada fra un classico sequel e un vero e proprio reboot. Un’attitudine rimarcata dal titolo: nonostante sia a tutti gli effetti il quinto capitolo della serie creata dal genio di Wes Craven, Scream porta infatti lo stesso nome del capostipite, senza il suffisso del numero 5.

Sono passati 10 anni da Scream 4 e dagli eventi in esso raccontati. Il mondo è totalmente cambiato, e con lui il cinema horror, indirizzato verso una svolta più autoriale dai vari Jordan Peele, Robert Eggers e Ari Aster. A non cambiare è però la fascinazione della cittadina di Woodsboro, teatro della ripetuta odissea personale di Sidney Prescott e delle persone a lei care. In uno dei tanti squisiti rimandi al primo film della serie, assistiamo così a una riproposizione della leggendaria intro con protagonista Drew Barrymore, che vede stavolta al centro delle attenzioni dell’iconico ghostface Jenna Ortega e la sua Tara Carpenter (il cui cognome è un chiaro omaggio a un maestro del cinema horror).

Tara ama Babadook, è inseparabile dal suo smartphone ed è forte di un sistema di sicurezza che le permette di bloccare istantaneamente le porte di casa, ma come quella ragazza del 1996 si ritrova sola e indifesa davanti all’orrore e alla follia. È l’inizio di una nuova ondata di terrore e violenza che, come da tradizione della serie, è anche uno spunto di riflessione sullo stato del cinema e sui vizi e le ossessioni degli stessi cinefili.

Il nuovo Scream è il “requel” che ci meritiamo

Il nuovo Scream sfrutta abilmente il canovaccio dei capitoli precedenti, adattandolo al panorama dell’intrattenimento contemporaneo. Abbiamo infatti ancora un impianto da giallo (chi è l’assassino? O meglio, chi sono gli assassini?) applicato a dinamiche da horror adolescenziale, con immancabili feste e un gruppo di giovani protagonisti uno più ambiguo dell’altro. Non manca ovviamente la rivisitazione delle regole del cinema horror, proposte nel primo film dal personaggio di Randy Meeks e aggiornate nei vari sequel. È proprio a margine di queste regole che Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett mettono in scena una pungente satira del cinema contemporanea, senza paura di fare nomi e cognomi.

Emblematica è la menzione a Stab 8, ottavo capitolo della serie fittizia basata sugli eventi dei film di Scream, odiato dai fan perché il regista (lo stesso di Cena con delitto – Knives Out) si sarebbe macchiato di mancanza di rispetto nei loro confronti. Non è difficile unire i puntini e leggere in questo passaggio un attacco ai fan di Star Wars, che nel 2017 hanno riversato tutto il loro odio su Rian Johnson, regista appunto di Cena con delitto – Knives Out e colpevole secondo loro di aver stravolto il canone della saga nell’ottavo episodio Star Wars: Gli ultimi Jedi.

In un’ottica più generale, è l’intera industria hollywoodiana a essere messa sul banco degli imputati e definita senza metti termini “priva di idee”. Proprio i recenti progetti legati a Star Wars, insieme a Ghostbusters: Legacy e alla nuova trilogia di Halloween (protagonista anche di un obbrobrioso errore di adattamento su Jamie Lee Curtis nel doppiaggio italiano), diventano l’oggetto di un’analisi sui sequel moderni, che richiedono immancabilmente la presenza dei vecchi protagonisti delle saghe e di nuovi e più giovani personaggi a loro legati da vari rapporti di parentela.

Le scelte di casting

Da fine opera meta-cinematografica, il nuovo Scream rispetta lo spirito della serie e si immerge nella stessa critica che porta avanti, utilizzando proprio le parentele fra vecchi e nuovi protagonisti come pietra angolare su cui imbastire la trama. Qui cominciano le note dolenti di questo requel, in quanto nessuno dei nuovi personaggi (dalla già citata Jenna Ortega a Melissa Barrera) dimostra di avere il carisma necessario per ereditare il peso di una serie che si tramanda dal 1996, anche attraverso le demenziali parodie degli Scary Movie. Non è un caso che Scream ingrani la marcia proprio quando entrano in scena volti noti come Neve CampbellDavid ArquetteCourteney Cox, chiamati a guidare la riscossa contro lo strapotere di Ghostface, autore della sua immancabile mattanza.

In ottica meta-cinematografica, spiccano però alcune scelte di casting, come quelle di Dylan Minnette (già visto in Tredici), Mikey Madison (interprete di una delle seguaci di Charles Manson in C’era una volta a… Hollywood) e quella di Jack Quaid, figlio di Meg Ryan e Dennis Quaid ma soprattutto identico al giovane Joshua Jackson, interprete di Pacey in Dawson’s Creek. Come sempre, il Diavolo si nasconde nei dettagli: la mente dietro alla serie teen drama (esplicitamente citata in questo capitolo) e alla saga di Scream è sempre la stessa, cioè il talentuoso Kevin Williamson, in questo caso solamente produttore esecutivo.

L’ambizione di questo requel è chiaramente quello di dare un nuovo impulso a una serie che (almeno sul grande schermo) era ferma dal 2011. Restano i dubbi sull’effettiva possibilità da parte delle nuove leve di portare sulle proprie spalle il futuro di Scream. Probabilmente, per dare un seguito a questa pregevole operazione ci sarà ancora bisogno delle due eroine Neve Campbell e Courteney Cox.

L’eredità di Scream

Non stupisce che anche il quinto capitolo di una saga genuinamente e orgogliosamente derivativa poggi interamente sulle solide spalle dei precedenti episodi, sulla cultura pop contemporanea e su dinamiche ben consolidate. In particolare, i fan della prima ora del gioiello di Wes Craven e Kevin Williamson riconosceranno situazioni, inquadrature e dialoghi già messi in scena nei precedenti capitoli, e non faticheranno a intuire chi possa nascondersi dietro la maschera di Ghostface. A sorprendere di questo Scream non è però la soluzione del mistero, quanto piuttosto la motivazione alla base dell’ennesima scia di sangue a Woodsboro, che anche in questo caso punta severamente il dito contro l’estremismo e la tossicità di alcuni fan.

Scream non si è mai esaurito nella violenza in scena (in questo caso più esplicita che mai), ma ha sempre tracimato fuori dallo schermo. Questa serie non è solo uno spettacolo da guardare, ma un’opera da cui farsi guardare, lasciando che vengano a galla le nostre criticità e i nostri punti deboli. Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett colgono perfettamente questo spirito, consegnandoci un requel perfettamente al passo con questa confusa epoca, che utilizza ancora una volta l’intrattenimento e la paura per dare vita a un nuovo e aggiornato compendio sull’industria cinematografica e seriale.

Scream è nelle sale italiane dal 13 gennaio, distribuito da Eagle Pictures.

Overall
7.5/10

Verdetto

Il quinto capitolo di Scream è un “requel” perfettamente al passo coi tempi, capace di cogliere lo spirito della serie creata da Wes Craven e di portare avanti l’ennesima dura critica all’industria hollywoodiana.

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Matrix Resurrections: recensione del film di Lana Wachowski

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In Matrix Resurrections, dopo anni di assenza dagli schermi troviamo nuovamente Thomas Anderson (Keanu Reeves) alle prese con la sua vita. Ce lo ricordiamo come quell’informatico nottambulo, un outsider, un nerd impacciato e timido che nasconde i suoi chip illegali tra le pagine di Simulacri e simulazione, un uomo alla ricerca di risposte, vacue, improbabili, sgualcite, confuse, perché confuse sono pure le domande. Oggi come allora, Lana Wachowski ci porta in un presente esoscheletrato da fitte menzogne, diviso in un mefitico binarismo esiziale, e ci conduce in una realtà ben diversa, eppure in fondo sempre la stessa.

Matrix è qui, è ancora attorno a noi, sempre, e Neo la percepisce, ora come allora, solo che oggi assume le pillole blu per poterci vivere in maniera più o meno concreta, preferendo l’amnesia, la disconoscenza, alla verità. Ma quelle pillole sono solo un palliativo, la sua scelta narcotica, che per lui assumono la forma di una postura implicita, di una spinta inconscia, un istinto detentivo che non ha chiavi di accesso.

Neo è un gamer designer di successo, la sua vita passata è stata trafugata, trasfigurata e riscritta in questa nuova Matrix, il senso dei suoi ricordi hanno trovato via di fuga nella – presunta – fantasia di un’anima geek. Matrix ora è un gioco, un videogioco in tre capitoli. Tutti conoscono Morpheus, Trinity, cos’è Zion e quali sono le straordinarie capacità dell’eletto. Tutti hanno giocato una volta nella loro vita a Matrix, e nelle sue versioni ludiche l’eletto è la simulazione di una fantasia, l’illusione speculare del tuo io digitale. Non esistono proiezioni mentali, verità stagnanti o collisioni digitali, ma una iperrealtà che inghiotte tutto e smargina passato, presente e futuro.

Matrix Resurrections: il ritorno di Neo

Neo è un anima che vaga in loop, che si divide tra il lavoro e sedute dall’analista, e la sua vita è un infinito deja vu, un errore sistemico che si infrange ogni giorno, e che ogni giorno viene ricostituito, tanto vicino da potersene divincolare ma lontanissimo da poterlo realizzare. C’è un gioco di assoluti, di distanze e di assenze che abitano questa nuova (ir)realtà: Neo sopravvive solo grazie alla vicinanza a Tiffany (Carrie-Anne Moss), che qui assume le sembianze di una donna sposata senza alcun ricordo del suo passato, e grazie ai suoi ricordi, che in maniera parzialmente inconsapevole, ha la possibilità di rivivere attraverso la sua creatura, ed è Matrix il vittoriale della sua vita passata, custode della sua vita ma il riflesso della sua vertigine.

In questo sonno concettuale, esistenziale e simbolico, che si staglia nel suo cammino il desiderio di riappropriazione, non solo della sua vita, ma di nuovi orizzonti, che possano attraversare sia Matrix sia il bastione umano abitato da Niobe, Io. Le immagini, ora contratte, ora sottratte, sono abitate da nuove consapevolezze, da nuovi obiettivi, che non sono guerre, il potere o le macchine, ma le alleanze, l’indulgenza e l’amore. L’amore tra Neo e Trinity torna in modo detonante ed è proprio ciò che fa funzionare Matrix Resurrections, poiché come pubblico e come spettatrici siamo cresciute e cresciuti con il loro amore e con il loro esempio; tornare a Neo e Trinity è stato come tornare a casa.

Matrix è il simbolo del binarismo

L’intero Matrix Resurrections ci parla di come Neo e Trinity hanno bisogno di ritrovarsi, di ricongiungersi perché non possono esistere l’uno senza l’altro, un tema che trattiene un senso profondo e struggente dato che Lana Wachowski ha scritto Matrix Resurrections come un modo per far fronte alla morte dei propri genitori. Neo e Trinity insieme sono tutto ciò che può portare la pace nel mondo reale, il loro amore è talmente potente da portare pace a tutti.

Non c’è mai banalità e melò in questo mondo, ma alchimia, ipersimbolismo ed empatia. Un nuovo mondo che Lana Wachowski ha contribuito a incarnare, a secolarizzare, un mondo che si sottrae dalle impalcature della binarietà, e ci conduce in un universo da ricostruire, assieme, senza strutture, senza schemi, che dichiara in maniera totale e chiara che il sistema che noi conosciamo, questo sistema è fallito, e che l’errore di sistema è qui davanti a noi e ci abita tutti i giorni.

Se nei primi tre capitoli le Wachowski seminano indizi della loro identità e sensibilità trans, con Neo che ha una disforia e Matrix che è il simbolo del binarismo, con Matrix Resurrections l’intento di Lana Wachowski è attraversare nuovamente l’infinito che esiste tra maschio e femmina, e non solo attraverso il corpo, ma attraverso il mondo: non è più solo il corpo ad essere protagonista, nella sua transizione, ma è il mondo, come corpo da riattivare, da redimere, da rigenerare, da rieleggere a epitome ideologica, materiale espressivo di un mondo che va cambiato, che cambia, che va riallineato con ciò che sente di essere.

Matrix Resurrections: la rivendicazione di uno spazio metafilmico, narrativo ed estetico

System Failure è la dichiarazione più potente di Lana e Lilly Wachowski: era il 1999 e il mondo non era né pronto né capace di comprendere la complessità della vita e delle ragioni delle due sorelle. Affermare che Lana Wachowski con questo nuovo capitolo volesse ricreare l’empirismo di Matrix e riattivarne la leggenda è abbastanza disinteressante; quel che ci dicono le immagini è che i capitoli precedenti sono infingimenti videoludici, proiezioni, repliche il cui mito è scomparso. Neo non può più volare, i suoi poteri sono quasi andati perduti, anche i cattivi hanno quasi perso la speranza di potersi rivaleggiare sulla sua leggenda, perché è perduta sì, come lacrime nella pioggia.

Quel che ci lascia questo nuovo capitolo è la rivendicazione di uno spazio, (meta)filmico, narrativo ed estetico, la cui tensione è superare se stesso, superare il suo genere e anche il suo divismo. Oggi, forse, siamo più capaci di recepire il messaggio delle sorelle, il loro sogno, e non sonno, concettuale, la loro urgenza spirituale, e Lana Wachowski, oggi e sempre, ci mostra quanto un nuovo inizio sia possibile, necessario, e rifare Matrix e plasmarla sotto nuovi cieli, per usare una parola tanto cara all’agente Smith, sia inevitabile.

Matrix Resurrections è disponibile nelle sale italiane dall’1 gennaio, distribuito da Warner Bros.

Overall
9/10

Verdetto

Matrix Resurrections è la rivendicazione di uno spazio (meta)filmico, narrativo ed estetico, che vuole oltrepassare se stesso, superare il suo genere e anche il suo divismo. Un potenziale nuovo inizio, ma anche la perfetta chiusura del cerchio della serie.

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House of Gucci: recensione del film con Lady Gaga e Adam Driver

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Sono due le vie principali per approcciarsi a House of Gucci, entrambe legittime e comprensibili. La prima vede l’84enne Ridley Scott nuovamente impegnato con una pagina nera della storia italiana a 4 anni da Tutti i soldi del mondo, ancora poco ispirato e di nuovo alle prese con una svogliata caricatura del nostro Paese. Da questo punto di vista, nonostante il sontuoso cast a disposizione (Lady Gaga, Adam Driver, Al PacinoJared LetoJeremy IronsSalma Hayek su tutti), House of Gucci è un’opera pacchiana ed estremamente superficiale, costantemente in bilico fra il trash involontario e la più totale inconsistenza, mai realistica o fedele alla vera storia di Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci.

In alternativa, possiamo dare fiducia a un cineasta che con opere del calibro di Alien e Blade Runner ha scritto pagine indelebili della storia del cinema, e che appena pochi mesi fa ha dato vita con The Last Duel a una sublime analisi delle società contemporanea mascherata da dramma storico. Seguendo questa strada, possiamo cercare di capire cosa ha spinto il regista britannico a dare vita a un lavoro così apparentemente bizzarro e sghembo e cosa sottende la sua messa in scena, più vicina a una farsa che a una rigorosa ricostruzione. Per quanto ci riguarda, noi abbracciamo con convinzione questa seconda ipotesi, pur comprendendo chi invece vedrà nell’ultima fatica di Scott un racconto profondamente respingente.

House of Gucci: l’autodistruzione di una famiglia

A Ridley Scott non interessa mettere in scena una fedele ricostruzione di ciò che è o di ciò che è stato. Al netto di qualche eccezione (Thelma & Louise, American GangsterNessuna verità) il nostro ha sempre raccontato il mondo allontanandosene e spaziando addirittura in altre epoche o in altri pianeti. La storia è sempre una pagina bianca, da riempire in base alle sue necessità. House of Gucci non fa eccezione, spronandoci continuamente a prendere atto del fatto che l’attinenza di ciò che vediamo su schermo con la realtà è scarsissima. Il regista evidenzia il suo modus operandi fin da subito, ambientando il primo incontro fra Patrizia Reggiani e il rampollo della famiglia Gucci nel 1978, quando i due erano invece sposati da ben 6 anni.

La prima di una lunga serie di distorsioni della realtà, che abbraccia la musica (l’inclusione nella soundtrack de La ragazza col maglione di Pino Donaggio e Sono bugiarda di Caterina Caselli, rispettivamente datate 1962 e 1967), la geografia italiana (luoghi di Milano continuamente scambiati con altri di Roma) e si spinge fino alla stessa biografia dei protagonisti, con la cancellazione dal racconto della nascita della seconda figlia della coppia, Allegra. Ma a esplicitare la natura più intima dell’operazione sono soprattutto i personaggi, che gli interpreti spingono ben oltre i limiti del macchiettistico.

Dal Paolo Gucci di Jared Leto, grottesco artista fallito e incredibilmente ingenuo uomo d’affari, passando per suo padre Aldo (un Al Pacino che gioca apertamente con il suo passato nella saga de Il padrino), fino ad arrivare all’uomo che li scalzerà dal trono di una delle più prestigiose case di moda, cioè Maurizio Gucci, che Adam Driver caratterizza prima con totale passività e poi con spregevole cinismo: una galleria di relitti umani, simboli di una famiglia disfunzionale che procede spedita verso l’autodistruzione.

Lady Gaga: il falso dentro il falso

In questa celebrazione dell’artificioso e della falsità, spicca la scheggia impazzita di Patrizia Reggiani, che lentamente mina dalle fondamenta l’impero dei Gucci, innescando il processo che porterà l’azienda ad allontanarsi definitivamente dalle mani di chi l’ha creata. Lady Gaga in House of Gucci è il falso dentro il falso, quindi paradossalmente la quintessenza del vero, solo parzialmente sporcata da un impresentabile accento italiano che, insieme agli omaggi musicali a Luciano Pavarotti e Giacomo Puccini, contribuisce alla folcloristica rappresentazione dell’Italia. Con una performance di segno opposto alla fragile naturalezza mostrata in A Star Is Born, la pop star si mangia letteralmente il film, illuminandolo con sguardi incendiari alternati a sordide macchinazioni, mascherate da cortesie. In bilico fra bieco arrivismo e metafora dell’emancipazione femminile, la sua Patrizia Reggiani è una burattinaia che si schianta a terra insieme ai suoi burattini, simbolo della fragilità di un mondo fondato sull’apparenza.

La sua stessa parabola esistenziale è un inno al più fiero e consapevole trash: il suo stretto rapporto con la sensitiva e futura complice Pina Auriemma (Salma Hayek, che nella vita reale è la moglie di François-Henri Pinault, CEO del gruppo Kering che controlla attualmente Gucci: riuscite a immaginare una scelta di casting più provocatoria?), la sua rovinosa caduta e il contatto con i sicari a cui affiderà l’incarico di uccidere il marito, in una scena che sarebbe stata perfetta per una parodia di quart’ordine di un gangster movie. Ulteriori tasselli di un mosaico che celebra il disfacimento del lusso e dello sfarzo, lentamente sepolti da una coltre di incompetenza, imbrogli e inaffidabilità.

House of Gucci: una tragicomica operetta shakespeariana

A voler ben guardare, il senso di House of Gucci sta tutto nel sagace passaggio in cui Patrizia Reggiani scopre prima il giro di contraffazione dei capi Gucci, per poi rendersi conto, imbeccata dallo zio del marito, che anche questo sottobosco di emulazione contribuisce agli affari della famiglia. Una presa di coscienza che implicitamente inserisce anche la stessa Patrizia, da sempre dedita alla falsificazione di se stessa e del marito in ottica speculativa, in uno schema di squallore e decadenza, inevitabilmente destinato a divorare se stesso.

Con questa tragicomica operetta shakespeariana, Ridley Scott ragiona allo stesso tempo sull’industria (cinematografica e non), sempre più lontana dalle grandi dinastie e dal loro bagaglio di esperienza umana e lavorativa, sempre più direzionata verso i grandi gruppi e le loro fini operazioni di marketing e rebranding. Esplicativa in questo senso è proprio la didascalia finale, che con amara lucidità ci ricorda che nessun membro superstite della famiglia Gucci è attualmente coinvolto nell’azienda. Grandi gruppi che con abili colpi di mano sottraggono aziende familiari dai legittimi proprietari, approfittando della loro posizione di forza e della fragilità di una generazione ormai superata: sotto quintali di trucco prostetico, svariati siparietti di imbarazzante miseria umana e una messa in scena che ci porta costantemente fuori dal racconto, Ridley Scott riesce nuovamente a fare cinema politico e pungente, parlando ancora del presente attraverso il racconto di un artefatto passato.

House of Gucci: il funerale di un’epoca

In questo circo di maschere discordanti, Ridley Scott centellina anche momenti di grande cinema, come i battibecchi fra Paolo e Aldo Gucci (quasi una rivisitazione del rapporto fra Fredo e Michael Corleone) e il mortifero dialogo fra Patrizia Reggiani e l’amante di Maurizio. Sprazzi di luce che, proprio come avviene nella dimora di Rodolfo Gucci, simulacro di un passato che non esiste più, illuminano un’opera dominata dall’oscurità e dalla mestizia, da cui non si salva nessuno. Non stupiscono quindi le dure e ripetute prese di posizione contro House of Gucci da parte dei reali protagonisti della vicenda, che accusano Scott di scarsa aderenza alla realtà.

Come Martin Scorsese in The Irishman, il regista britannico ha dato vita, senza nessun compromesso, a una cerimonia funebre di un’epoca, di un modo di fare affari e di un approccio all’immagine, infischiandosene totalmente del settore a cui appartengono i suoi protagonisti (la moda) per concentrarci su miseri e altamente simbolici ritratti umani. Forse tutto questo non basta a soddisfare tutti, ma per quanto ci riguarda è sufficiente per affermare che possiamo ancora contare su un grande autore, capace di raccontare il contemporaneo con opere che lasciano sempre l’amaro in bocca e la sensazione di essere stati colpiti dove fa più male.

House of Gucci è nelle sale italiane dal 16 dicembre, distribuito da Eagle Pictures.

Overall
8/10

Verdetto

Ridley Scott mette in scena il funerale di un’epoca e di un modo di approcciarsi all’industria, dando vita a un racconto che rifiuta categoricamente il realismo per concentrarsi sulla miseria umana dei propri protagonisti, simboli di un mondo che non esiste più.

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