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Mank: recensione del film di David Fincher con Gary Oldman
«Non si può ritrarre l’intera vita di un uomo in due ore, ma solo provare a darne un’impressione», dice Herman J. Mankiewicz, anticipando l’indimenticabile battuta «La vita di un uomo non si può spiegare con una sola parola» del leggendario Quarto potere, che ha contribuito a creare. Un frammento di Mank di David Fincher, da qualche giorno nel catalogo Netflix, che racconta molto di un’operazione nata con l’intento di addentrarsi nei retroscena del capolavoro di Orson Welles ma in grado di indagare anche su molto altro, come gli intrecci fra politica e industria dell’intrattenimento, la ciclica necessità da parte del cinema di rinnovare e rinnovarsi, la capacità delle immagini di influire sull’esito di un’elezione e soprattutto il punto di vista sul processo creativo degli sceneggiatori, rappresentati dal Mankiewicz di un sontuoso Gary Oldman e di riflesso da Jack Fincher, defunto padre del regista e autore dello script.
A sei anni di distanza da L’amore bugiardo – Gone Girl, David Fincher torna al cinema con il suo secondo biopic, che proprio come lo strepitoso The Social Network ha un andamento decisamente atipico, volto a scandagliare non soltanto i successi del protagonista, ma anche e soprattutto i suoi coni d’ombra e il rapporto di essi con il particolare contesto storico e sociale. Il risultato è un racconto dalle molte anime, che si dipana dalla vita di uno specifico uomo, forse impossibile da ritrarre o spiegare in due ore, ma che al tempo stesso indugia su temi o eventi tangenti a Mankiewicz, in grado però di restituirci la dimensione storica e artistica di uno dei più celebrati esponenti del cinema narrativo classico, che ha nobilitato, non sempre accreditato, in opere come La guerra lampo dei Fratelli Marx, Il mago di Oz e L’idolo delle folle.
Fra Mank e Orson Welles
Come ampiamente annunciato dalla campagna promozionale, il centro nevralgico di Mank è il suo legame con Quarto potere. Fincher si inserisce nel solco lasciato da Pauline Kael nel suo Raising Kane, ridimensionando il contributo di Orson Welles alla creazione dell’opera in favore di quello di Mankiewicz. Quello dello sceneggiatore è il punto di vista non solo sulla genesi del film, ma anche sull’industria di Hollywood, della quale emergono vizi, bassezze e contraddizioni. Costretto a letto con una gamba rotta, Mank ha davanti a sé 90 giorni (ridotti poi a 60 da Welles) per elaborare una sceneggiatura che è la sintesi della sua esperienza nella fabbrica dei sogni.
Mankiewicz è annoiato, disilluso, consumato dall’alcolismo. Un uomo poco più che quarantenne, che ne dimostra almeno 20 di più, grazie anche alla performance quasi tutta in sottrazione di Oldman. La narrazione non è circoscritta al suo processo creativo, ma si spande nel dietro le quinte, nei giochi di potere che governano l’industria e negli incontri con i tanti pittoreschi personaggi che popolano questo sottobosco. Fra continui salti avanti e indietro nel tempo, scopriamo di più su Mank, sul suo percorso a Hollywood, sul suo rapporto con la rassegnata moglie (“la povera Sara”, come la chiama lui) e sulla sua problematica collaborazione con lo stesso Welles (impersonato da un sorprendente Tom Burke), che ci viene presentato come un personaggio tronfio e cinico al punto da sfruttare la calante popolarità dello sceneggiatore per proporgli un avvilente accordo volto a intestarsi totalmente la paternità di Quarto potere.
Mank: il lato oscuro della golden age di Hollywood
Sulla carta, c’è tutto il necessario per considerare Mank un’opera anti-Welles. Una tesi che trova conferma in alcune dichiarazioni del regista (particolarmente controversa quella in cui accusa Welles di essere stato uno showman talentuoso ma immaturo), ma non nelle immagini, che trasudano invece sincera ammirazione per il maestro statunitense. L’elegante (ma a tratti posticcio) bianco e nero, le inquadrature dal basso verso l’alto, i rimandi a Macbeth e Don Chisciotte e la stessa struttura narrativa sono infatti espliciti richiami al cinema di Orson Welles. Con l’intento di omaggiare la golden age hollywoodiana, Fincher dissemina poi in Mank tante piccole strizzate d’occhio agli spettatori più navigati, come le caratteristiche bruciature di sigaretta della fine di un rullo di pellicola o le transizioni temporali scandite da pagine di sceneggiatura. Elementi che solleticano il palato cinefilo, ma che si perdono fra le pieghe di un racconto denso di temi e contenuti.
Fra le tante idee messe sul piatto, non sfugge l’insistenza con cui Fincher (che ha trovato in Netflix supporto non solo per Mank, ma anche per i suoi progetti televisivi House of Cards e Mindhunter) fa un parallelo fra la Hollywood dell’epoca e quella odierna. Raccontando il passato, il regista riflette anche sul presente dell’industria, fra crisi di idee (un monster movie reso accattivante agli occhi della produzione grazie alla dialettica degli sceneggiatori) e svolte epocali (fra muto e sonoro allora, fra sala e streaming oggi), concedendosi anche qualche acuta riflessione sul potere dei media sulle elezioni, con quei cinegiornali MGM creati per mettere in cattiva luce il democratico (o meglio, socialista) Upton Sinclair in favore del repubblicano Frank Merriam che ricordano molto le fake news con cui i partiti di estrema destra hanno guadagnato consenso negli ultimi anni.
La magnetica Amanda Seyfried
Per sottolineare il cinismo delle case di produzione, Fincher mette in bocca ai propri personaggi battute memorabili, come «Puoi fare tutto se hai il potere di far credere che King Kong è alto dieci piani o che Mary Pickford è vergine a 40 anni» o «Il cinema è un’attività in cui l’acquirente con i soldi ottiene solo un ricordo. Ciò che compra appartiene ancora a chi l’ha venduto. Questa è la vera magia del cinema», pensiero con cui il capo di MGM Louis B. Mayer indottrina i fratelli Mankiewicz sui meccanismi di Hollywood. Dettagli, aneddoti e retroscena che arricchiscono il contesto di Mank, esaltando i cinefili ma correndo il rischio di allontanare gli spettatori ignari di questi eventi e dei numerosi antagonisti che Mankiewicz affronta nel suo viaggio.
Da interprete consumato e di classe sopraffina (che sarà con ogni probabilità certificata da un’altra nomination all’Oscar per questa performance), Gary Oldman conquista ogni singolo fotogramma, con il ritratto di un uomo sopraffatto, che proprio sull’orlo del baratro trova ogni volta nuova linfa vitale e artistica. Mentre il rapporto con la segretaria Rita Alexander (Lily Collins) è solo abbozzato, Mank trae beneficio dal fortuito incontro con Marion Davies, impersonata da una magnetica Amanda Seyfried. Proprio nei dialoghi con la giovane donna (amante dell’uomo che ha ispirato Citizen Kane di Quarto potere, cioè l’editore William Randolph Hearst) emerge un altro dei temi, cioè l’indissolubile legame fra realtà e finzione e il labile confine fra vero e falso, che Fincher stesso attraversa più volte con estrema disinvoltura, senza curarsi troppo della veridicità del racconto.
Mank: da Quarto potere a Don Chisciotte
Non poteva ovviamente mancare l’incontro-scontro con lo stesso William Randolph Hearst, portato in scena da Charles Dance. Tanti i dettagli che emergono in una continua sovrapposizione fra gli eventi reali, Quarto potere e la reinterpretazione dei Fincher: l’opulenza e il progressivo declino di Hearst/Kane, la comune tendenza a strizzare l’occhio al nazismo e a influenzare l’opinione pubblica o la pervicacia nella spinta della carriera della propria giovane amante (Marion Davies nella recitazione, la seconda moglie di Kane Susan nel canto), nonostante evidenti limiti. Ma per Fincher, Hearst è soprattutto la figura che spinge il processo creativo di Mankiewicz, e non è certo un caso che la più dirompente deflagrazione emotiva del protagonista sia proprio il confronto finale fra i due, che permette anche a Oldman di dare vita a uno strabiliante monologo.
Burattinaio e burattino si scoprono così molto più vicini di quanto pensavano, sconfitti dalla vita e dalla lotta contro diversi mulini a vento, come novelli Don Chisciotte. Ma mentre per Hearst non c’è più speranza per una risalita, Mank ha un’ultima possibilità di riscatto nei confronti di quel mondo in cui ha prosperato, ma che in fondo lo disgusta: firmare la sceneggiatura di Quarto potere e prendersi i meriti per quella che tutte le persone intorno a lui considerano la sua migliore opera. Per ottenere questo riconoscimento è però necessario un ulteriore confronto con Orson Welles, che non è soltanto l’uomo chiamato a dare vita al capolavoro, ma anche il simbolo dell’eterno conflitto fra la fazione più potente e celebrata, la regia, e quella più spesso sminuita e dimenticata della sceneggiatura, con la quale Mank si schiera apertamente.
Lettera al padre
In questa strenua difesa della sceneggiatura da parte di chi sceneggiatore non è mai stato (Fincher figlio) e di chi invece lo è stato, ottenendo però risultati solo anni dopo la propria morte (Fincher padre) risiede il nucleo emotivo di un’opera che paradossalmente trova il proprio più convincente sottotesto al di fuori dell’opera stessa.
Fra nostalgia cinefila, corsi e ricorsi storici e lati oscuri di Hollywood, Mank riesce anche a consegnare due toccanti e appassionate lettere d’amore. Quella di uno scrittore verso un proprio punto di riferimento, impreziosita dalla cronistoria (non importa se vera o romanzata) della sospirata paternità di un’opera e della conseguente conquista di un Oscar, ma soprattutto la lettera al padre di un figlio che ha compiuto il percorso inverso, rinunciando alla paternità della sceneggiatura di Mank (accreditata solo a Jack Fincher, ma verosimilmente revisionata da David negli ultimi 20 anni) per omaggiare la memoria del genitore. Una delle molteplici chiavi di lettura di un progetto che segna il ritorno al cinema di un formidabile autore e riconnette gli spettatori con una Hollywood lontana nel tempo, ma segnata dagli stessi dubbi e da problematiche analoghe a quelle di oggi.
Overall
Verdetto
David Fincher mette in scena un sentito omaggio alla golden age di Hollywood, potenzialmente respingente per gli spettatori che non conoscono gli eventi narrati, ma traboccante d’amore per il cinema e per la sceneggiatura.
Focus
Netflix: tutte le nuove uscite che vedremo a febbraio 2022
Anche a febbraio, Netflix ha in serbo tante novità per i propri abbonati, a cominciare dal ritorno di due serie particolarmente amate come Disincanto e Space Force. Non mancano i film originali, come Dalla mia finestra, Il mese degli dei e Amore e guinzagli. Spazio come sempre anche a documentari e reality show, come Il truffatore di Tinder e L’amore è cieco. Di seguito, l’elenco completo di quello che vedremo il prossimo mese su Netflix.
Cosa vedremo su Netflix a febbraio 2022
1 febbraio
- Dion (serie originale, stagione 2)
- Finding Ola (serie originale, stagione 1)
- John Wick (film non originale)
- Riverdale (serie non originale, stagione 5)
- Conan il ragazzo del futuro (serie non originale, stagione 1)
2 febbraio
- Oscuro desiderio (serie originale, stagione 2)
- Me Contro Te – Il Film – La Vendetta del Sig. S (film non originale)
- Il truffatore di Tinder (documentario originale)
3 febbraio
- Murderville (serie originale, stagione 1)
4 febbraio
- Dalla mia finestra (film originale)
- Il colore delle magnolie (serie originale, stagione 2)
6 febbraio
- Brooklyn 99 (serie non originale, stagione 7)
8 febbraio
- Il mese degli dei (film originale)
- Ms. Pat: Y’All Wanna Hear Something Crazy? (stand-up comedy originale)
- L’amore è cieco: Giappone (reality show originale)
9 febbraio
- Disincanto (serie originale, stagione 4)
- Idee da vendere (reality show originale, stagione 1)
11 febbraio
- Amore e guinzagli (film originale)
- Tallgirl 2 (film originale)
- Bigbug (film originale)
- Jeen-Yuhs: A Kanye Trilogy (film originale)
- Love Tactics (film originale)
- Inventing Anna (serie originale, stagione 1)
- Toy Boy (serie originale, stagione 2)
- L’amore è cieco (reality show originale, stagione 2)
14 febbraio
- Fedeltà (serie originale, stagione 1)
16 febbraio
- Secrets of Summer (Cielo Grande) (serie originale, stagione 1)
17 febbraio
- Perdonaci i nostri peccati (film originale)
- Erax (film originale)
- Heart Shot – Dritto al cuore (film originale)
- Il giovane Wallander (serie originale, stagione 2)
- Al passo con i Kardashians (reality show non originale, stagione 17)
18 febbraio
- Non aprite quella porta (film originale)
- La serie di Cuphead! (serie originale, stagione 1)
- Space Force (serie originale, stagione 2)
- Uno di noi sta mentendo (serie originale, stagione 1)
- Downfall: Il caso Boeing (documentario originale)
19 febbraio
- Venom (film non originale)
- Non mi uccidere (film non originale)
22 febbraio
- Bubba Wallace: in gara contro ogni limite (serie originale, stagione 1)
25 febbraio
- Vikings: Valhalla (serie originale, stagione 1)
- La giudice (serie originale, stagione 1)
- Madea: Il ritorno (film non originale)
Focus
Netflix: tutte le nuove uscite che vedremo a gennaio 2022
Netflix inaugura il 2022 con il ritorno di tre serie particolarmente amate dal pubblico, cioè Ozark (quarta stagione), After Life e Snowpiercer (entrambe al terzo ciclo di episodi). Fra i reality, spazio alla terza stagione di Too Hot to Handle, mentre fra i film originali in arrivo sulla piattaforma spicca il dramma storico Monaco: sull’orlo della guerra. Di seguito, l’elenco completo di quello che vedremo a gennaio su Netflix.
Tutto ciò che vedremo a gennaio 2022 su Netflix
1 gennaio
- Incastrati (serie originale, stagione 1)
- Manifest (serie non originale, stagioni 1-3)
- The Big Bang Theory (serie non originale, stagione 12)
- The Good Doctor (serie non originale, stagione 4)
- Sicario (film non originale)
- Operazione amore (serie non originale, stagione 3)
- Superstore (serie non originale, stagione 6)
- Nessuno come noi (film non originale)
- Love etc. (film non originale)
- Passengers – Mistero ad alta quota (film non originale)
- Percy (film non originale)
- The Reader – A voce alta (film non originale)
- Orders to Kill (film non originale)
- Restless Natives (film non originale)
- The Conquest of Everest (film non originale)
- The Cruel Sea (film non originale)
- Le Diable Par La Queue (film non originale)
- Convoy (film non originale)
- Intruder (film non originale)
- The Iron Maiden (film non originale)
- Così come sei (film non originale)
- Amici come prima (film non originale)
- Se son rose… (film non originale)
- S.W.A.T.: Sotto assedio (film non originale)
- Ti presento Sofia (film non originale)
- 12 Soldier (film non originale)
2 gennaio
- For Life (serie non originale, stagione 1)
3 gennaio
- Bad Boys for Life (film non originale)
4 gennaio
- Action Pack – Squadra in azione (serie animata originale, stagione 1)
5 gennaio
- Doctor Sleep (film non originale)
- Rebelde (serie originale, stagione 1)
- 4 Metà (film originale)
- Motherless Brooklyn – I segreti di una città (film non originale)
6 gennaio
- The Club (serie originale, stagione 1 parte 2)
- El Paramo – terrore invisibile (film originale)
- Uncle Drew (film non originale)
7 gennaio
- Mother/Android (film originale)
- Una festa esagerata (film non originale)
- Puoi baciare lo sposo (film non originale)
- Classe Z (film non originale)
- Hype House (serie non originale, stagione 1)
10 gennaio
- Undercover (serie originale, stagione 3)
- I magnifici sette (film non originale)
11 gennaio
- L’origine du monde (film originale)
12 gennaio
- How I Fell in Love With a Gangster (film originale)
13 gennaio
- The Journalist (serie originale, stagione 1)
- Brazen (film originale)
- Photocopier (film originale)
14 gennaio
- After Life (serie originale, stagione 3)
- Archive 81 – Universi alternativi (serie originale, stagione 1)
- The House (serie animata originale, stagione 1)
- Riverdance – L’avventura animata (film originale)
- El comediante (film originale)
18 gennaio
- DOTA: Dragon’s Blood: Book (serie anime originale, stagione 2)
19 gennaio
- Too Hot to Handle (reality originale, stagione 3)
- Viaggi prelibati: Messico (docuserie originale, stagione 1)
20 gennaio
- Il trattamento reale (film originale)
- Midnight Asia: Mangia · Balla · Sogna (docuserie originale, stagione 1)
21 gennaio
- Ozark (serie originale, stagione 4)
- Monaco: sull’orlo della guerra (film originale)
25 gennaio
- Snowpiercer (serie originale, stagione 3)
- Neymar – Il caso perfetto (miniserie originale)
27 gennaio
- Soy Georgina (serie originale, stagione 1)
28 gennaio
- Getting Curious with Jonathan Van Ness (serie originale, stagione 1)
- La donna nella casa di fronte alla ragazza dalla finestra (serie originale, stagione 1)
Netflix
Don’t Look Up: recensione del film con Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence
Il cinema di Adam McKay è incentrato sui mediocri. Dei mediocri che a volte diventano pretesti per racconti demenziali, come il suo esordio Anchorman – La leggenda di Ron Burgundy e le successive collaborazioni con Will Ferrell, ma che in altri casi si trasformano in feroci e sfrenate satire sul mondo e sulla società, come nel caso de La grande scommessa, Vice – L’uomo nell’ombra e della sua ultima fatica Don’t Look Up, disponibile dall’8 dicembre nelle sale italiane e su Netflix dal 24 dello stesso mese. Un progetto esaltato da un cast stellare, che comprende ben 5 premi Oscar (Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Mark Rylance, Cate Blanchett e Meryl Streep) e altri formidabili interpreti del calibro di Timothée Chalamet, Jonah Hill, Ron Perlman, Rob Morgan e Tyler Perry.
Dopo la tragicomica ricostruzione della crisi finanziaria del 2007-2008 e l’inquietante ricostruzione della parabola politica di Dick Cheney, Adam McKay mette di nuovo al centro del mirino le istituzioni, che si trovano costrette ad affrontare l’imminente impatto della Terra con una cometa di circa 9 chilometri di diametro, capace di distruggere la vita su tutto il pianeta nel giro di pochi minuti. Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence, nei panni rispettivamente del professore di astronomia Randall Mirby e della sua studentessa Kate Dibiasky, sono i rappresentanti della scienza, impegnata a fornire ai governi e ai cittadini dati inoppugnabili con i quali prendere decisioni importanti e urgenti.
Dall’altra parte, la Presidente USA Janie Orlean (una trumpiana Meryl Streep), il suo arrogante figlio Jason (Jonah Hill), la presentatrice Brie Evantee (una sontuosa Cate Blanchett, pur sepolta da chili di trucco) e il guru della tecnologia Peter Isherwell (Mark Rylance in un bizzarro incrocio fra Steve Jobs, Mark Zuckerberg ed Elon Musk). Un manipolo di pericolosi incompetenti contro la più pericolosa minaccia globale. Cosa può andare storto?
Don’t Look Up: un tragicomico sguardo sul nostro prossimo futuro
Adam McKay è nato con la commedia, è stato forgiato come sceneggiatore dai suoi anni al Saturday Night Live e sa che attraverso la risata e un delicato equilibrio fra satira e grottesco si può ironizzare e fare riflettere su ogni cosa, come ci ha insegnato Stanley Kubrick col suo immortale Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba. Non stupisce quindi che questo regista statunitense, sempre più abile e tagliente, usi nuovamente il ridicolo e l’eccesso per mettere alla berlina tutte le categorie umane che ci circondano. In un curioso mix fra lo scenario di Idiocracy e la trama di Deep Impact, quasi tutti ne escono con le ossa rotte.
La rappresentazione più feroce è dedicata alle figure più potenti. Conosciamo quindi una politica più interessata alle elezioni di metà mandato che a un cataclisma mondiale, che non esita a sminuire la minaccia e a soffiare sull’ignoranza e sugli estremismi, lanciando un movimento che invita a non guardare in alto (da qui il titolo Don’t Look Up), in opposizione a chi implora di alzare lo sguardo per osservare con i propri occhi l’arrivo della cometa.
Immancabile poi la critica ai giganti della tecnologia, con il tycoon di Mark Rylance che riassume tutte le caratteristiche più sinistre dei giganti del tech, come l’impatto sulla nostra vita (la capacità degli algoritmi di prevedere i nostri futuri passi attraverso la piena conoscenza delle nostre attività), i collegamenti con la politica (Peter Isherwell è un finanziatore della campagna presidenziale di Janie Orlean) e il desiderio di impattare su ogni aspetto della nostra esistenza (l’app che propone buffi video di animali quando rileva ansia o malinconia).
Fra satira e parodia
In filigrana, emergono chiaramente i tre principali bersagli di Don’t Look Up: una classe politica cinica e totalmente priva di visione del futuro, coccolata dai colossi della finanza e della tecnologia; lo stato attuale dell’informazione sul Covid, con gli scienziati che a causa della pressione di negazionismi e riduzionisti faticano sempre di più a fare emergere la verità, e che anche quando ci riescono finiscono per essere inglobati dal sistema (si veda l’ascesa del personaggio di Leonardo DiCaprio nello star system e sui media, in una parabola che ricorda quella di tanti virologi negli ultimi mesi); infine, la minaccia mondiale che è costantemente sotto i nostri occhi, ben documentata dai ricercatori e nonostante ciò ignorata dalla stragrande maggioranza delle persone, cioè il cambiamento climatico, la vera cometa che si sta avvicinando alla Terra.
Muovendosi lungo queste direttrici, Adam McKay mette in scena una commedia spassosa e impertinente, che gioca con i cliché del cinema di fantascienza degli ultimi decenni (esilarante soprattutto il personaggio di Ron Perlman, vera e propria parodia dell’eroismo e della mascolinità sulla scia del Bruce Willis di Armageddon – Giudizio finale) e trova alcune notevoli intuizioni comiche in sceneggiatura, come le ripetute gag sugli snack fatti pagare alla Casa Bianca (vero e proprio trauma per il personaggio di Jennifer Lawrence) o la previsione dell’algoritmo sul futuro della Presidente Janie Orlean (sia al cinema che a casa, non alzatevi prima della fine dei titoli di coda!).
Il cast di Don’t Look Up
Con le sue precedenti opere, Adam McKay ci aveva presentato soluzioni originali e di forte impatto dal punto di vista registico, come la crisi dei mutui subprime spiegata da Margot Robbie dentro una vasca da bagno ne La grande scommessa o il racconto che ricomincia letteralmente da capo in Vice – L’uomo nell’ombra. Con Don’t Look Up, il regista dà vita a un’opera decisamente lineare, che abbraccia quasi sempre l’assurdo e che trova proprio nei momenti più drammatici i suoi pochi momenti di debolezza. È questo il caso del personaggio di Jennifer Lawrence, che duella in bravura con Leonardo DiCaprio per buona parte del racconto prendendo le parti della logica e della razionalità, per poi mostrare la corda nel momento in cui si cerca di attribuirle sfumature più cupe e malinconiche.
Lo stesso Leonardo DiCaprio sembra a tratti faticare a rendere il disagio di un uomo di scienza perso fra ricerca e inaspettata popolarità, nucleo familiare e avance di una Cate Blanchett che interpreta alla perfezione l’essenza della falsità e dell’arrivismo. Da attore di sconfinato talento e impareggiabile carisma, DiCaprio riesce però anche a rubare la scena a tutti i colleghi, con un’esplosione di ira e di sdegno che è già antologia della storia recedente del cinema e grazie a cui metterà con ogni probabilità un’ennesima nomination all’Oscar nel suo prestigioso curriculum.
Mentre il già citato Il dottor Stranamore teneva dritta la barra sulla satira e sull’assurdo, trovando paradossalmente l’essenza dei personaggi e del loro contesto, Adam McKay ritrae in più di un’occasione la mano, cercando una non necessaria sponda drammatica (come i troppi stacchi sulle reazioni della popolazione mondiale agli eventi) invece di puntare senza indugi sul suo meraviglioso ensemble, che funziona invece a meraviglia soprattutto quando si muove sopra le righe.
Don’t Look Up: un monito sul prossimo futuro
Don’t Look Up adempie comunque al proprio compito, lasciandoci più dubbi che certezze e più disagio che piacevolezza, nonostante le tante risate che regala. Questo perché, come evidenzia brillantemente il poster, l’opera di Adam McKay è basata su fatti realmente possibili e su scene squisitamente demenziali che sono molto meno improbabili di quanto crediamo. Fino a qualche anno fa, sarebbe stato difficile anche solo pensare a un Presidente degli Stati Uniti che invita a guardare in basso e a non credere agli allarmismi, a un’imminente catastrofe ignorata in favore del profitto e a un colosso tecnologico che dichiara esplicitamente di voler conoscere tutti i nostri pensieri per venderci la soluzione a bisogni che non sapevamo di avere.
Oggi sappiamo invece che tutto questo è realistico, se non addirittura probabile. Se c’è ancora la possibilità di salvarci dall’autodistruzione, la ricetta passa sicuramente da quello che ci mostra e ci suggerisce Don’t Look Up. Non ci resta quindi che smettere di dividerci in assurde fazioni, mettere da parte il trending topic del giorno e cominciare a costruire un futuro migliore. Senza mai smettere di guardare in alto.
Overall
Verdetto
Don’t Look Up è l’ennesimo gioiello esilarante e pungente della carriera di Adam McKay. Un cast stellare e in ottima forma mette in scena una storia talmente bizzarra e surreale da essere perfetta per la nostra confusa epoca. Un monito sul prossimo futuro da non sottovalutare e di cui fare tesoro.