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The Last Dance: recensione della docu-serie Netflix
Sembra quasi pleonastico dire che lo sport e la narrazione sportiva hanno preso il posto dell’epica. Lo è a maggior ragione da quando alcuni sport hanno raggiunto una dimensione mediatica tale da permettergli di essere fruiti da miliardi di persone in ogni angolo del pianeta e di essere scandagliati in ogni aspetto, dentro e fuori dal campo di gioco. In un’epoca in cui il racconto dello sport è arricchito da straordinari storyteller, come il nostro Federico Buffa, non stupisce quindi più di tanto che intrattenimento e sport si fondano in una cosa sola, confluendo nella più celebre piattaforma di streaming su piazza con The Last Dance, docu-serie in 10 episodi che ha infranto ogni record di Netflix, con oltre 23 milioni di spettatori al di fuori degli Stati Uniti.
Successo ancora più clamoroso se consideriamo che questa serie è incentrata su una singola stagione sportiva di una singola leggendaria squadra di basket di ben 22 anni fa, cioè i Chicago Bulls di Michael Jordan, che nel 1997/1998 vissero appunto la loro The Last Dance: l’ultima stagione di successi prima di dividersi per sempre, fiaccati dall’età, dal logorio fisico e da qualche dissidio interno di troppo. Attingendo a immagini di repertorio, interviste ad hoc e centinaia di ore di riprese concesse dagli stessi protagonisti della squadra, che hanno accettato di essere filmati dietro le quinte della loro ultima stagione, il regista Jason Hehir (già apprezzato per il notevole documentario Andre the Giant) consegna al pubblico un vero e proprio trattato di epica sportiva, fatto di trionfi e sconfitte, amicizia e rivalità, passione e fissazione, in grado di essere compreso e apprezzato sia dagli appassionati che dai profani in ambito NBA.
The Last Dance: l’epopea sportiva di Michael Jordan e dei Chicago Bulls
The Last Dance si muove sinuosamente lungo due piani temporali: quello della cavalcata trionfale di Jordan e dei Bulls verso il loro sesto titolo e un altro che parte da più lontano, cioè dagli esordi di MJ e dai primi vagiti di quella squadra che solo attraverso il lavoro, un’attenta pianificazione e diverse batoste ha permesso al proprio fuoriclasse di condurla a 6 anelli in 8 stagioni (i due mancanti coincidono con il temporaneo ritiro di Jordan dal basket).
Il divario fra le temporalità si assottiglia sempre più, arrivando ad annullarsi negli episodi finali della serie, che coincidono con il racconto degli ultimi due titoli di Chicago, conquistati entrambi ai danni dei temibili Utah Jazz di Karl Malone e John Stockton. Inevitabile baricentro e primario punto di vista sulle vicende narrate, sua altezza Michael Jordan, che si concede generosamente alle telecamere, mettendosi a nudo nella cronaca della sua ossessiva ricerca della vittoria.
Chiarito a chi tocca la parte dell’eroe di questo racconto fantasy, con la palla da basket che prende il posto delle spade e le prodezze degli atleti che sostituiscono gli incantesimi, occorre assegnare gli altri ruoli di questa saga lunga quasi 20 anni. Non ci sarebbe un eroe senza il suo fido scudiero, che in questo caso corrisponde a un altro dei migliori della storia del gioco: Scottie Pippen. Non solo un secondo violino, ma l’uomo verso il quale Jordan riponeva più fiducia, spronandolo a migliorare ogni giorno e vessandolo con la sua ingombrante mentalità vincente, capace di renderlo a tratti inavvicinabile dai suoi stessi compagni di squadra.
Mentore e scudiero
Immancabile poi il ruolo del mentore, cioè il coach Phil Jackson: un hippy prestato allo sport, un maestro zen dirottato sulla gestione di uno dei più problematici spogliatoi dello sport professionistico. L’unico capace di convincere Jordan a incanalare il suo gioco totalizzante in un’ottica di squadra, senza perdere la sua fiducia e conservando il suo estro per i momenti decisivi delle loro battaglie. È vero che i Bulls non hanno mai vinto senza Jordan, ma lo è altrettanto il fatto che lo stesso Jordan non è mai riuscito a vincere senza il suo silenzioso ed efficace scudiero Pippen e senza il suo carismatico e comprensivo mentore Jackson.
Ma a partire da questo nucleo The Last Dance si espande in tante direzioni, macinando storie, aneddoti e confessioni. Fra i tanti personaggi su cui si concentra Hehir, merita un capitolo a parte (e possibilmente un vero e proprio spin-off sulle sue 48 88 ore di permesso a Las Vegas) il Verme Dennis Rodman. Un potenziale delinquente salvato dal parquet, un giullare capace di accatastare rimbalzi e palle recuperate, un folle in grado di passare in un battito di ciglia dallo sballo più totale alla più lucida e disciplinata abnegazione sportiva, ma anche un uomo segnato da un’infanzia che definire tormentata è un eufemismo, che si apre con sincerità alle telecamere, indugiando anche su quella volta in cui si trovò per troppo tempo chiuso in una macchina ferma in un parcheggio, con un fucile carico in mano e troppi brutti pensieri per la testa.
The Last Dance e i nemici: i Bad Boys e Jerry Krause
In ogni grande racconto epico non possono poi mancare i nemici, che in The Last Dance non sono solo i tanti avversari sportivi, fra cui spiccano i Bad Boys dei Detroit Pistons, capaci di eliminare per tre volte consecutive i Bulls grazie al loro gioco fisico e sopra le righe, ma anche il general manager della squadra Jerry Krause, a cui tocca ingenerosamente il ruolo di principale villain della storia. Anni di formidabili intuizioni e di affari di mercato non gli sono infatti bastati a farsi perdonare il più grave dei peccati, cioè quello di aver di fatto smantellato questa formidabile squadra, nel vano tentativo di rinnovarla e mantenerla vincente.
Proprio dal più grave errore della carriera di Krause nasce lo spunto che fa di The Last Dance (cioè il titolo dato dallo stesso Jackson all’ultima stagione della squadra) un documentario destinato a segnare la narrazione sportiva. La certezza che il manager non avrebbe rinnovato il contratto a Jackson, spingendo così Jordan lontano da Chicago e togliendo l’unico possibile deterrente alla partenza di Pippen, spazientito da anni di ingaggi al di sotto delle sue prestazioni, consegna a questo gruppo, unito nelle sue contraddizioni, la consapevolezza di avere ancora una sola stagione per dimostrare nuovamente il suo valore e la libertà di concentrarsi solo sulla vittoria, senza pensare a ciò che sarebbe venuto dopo.
Le star dei Bulls sfilano davanti alle telecamere come attori durante una premiere di un film particolarmente atteso, coscienti di avere i riflettori puntati su di loro e pronti a sfruttare ogni secondo di sovraesposizione per i loro più disparati fini, come la delegittimazione dello stesso Krause (più volte bersagliato da Jordan e Pippen, anche con body shaming) o l’ulteriore pressione esercitata sui suoi compagni da Jordan, intento a curare ogni singolo dettaglio verso la vittoria.
L’ottovolante emotivo di The Last Dance
In mezzo a tanto trash-talking, di cui Jordan era un maestro, e molto cameratismo da spogliatoio, a rimanere impressi sono soprattutto gli sguardi, difficili da dissimulare. E gli sguardi a metà fra adorazione e riverenza dei compagni e dei tifosi, ancora più delle sue azioni sul campo, restituiscono la statura umana e mediatica di MJ, che l’indispensabile Federico Buffa ha descritto con queste parole: «Un’esploratore dell’umanità, un uomo che ha pensato che esistessero dei limiti e ha fatto tutto quello che poteva per superarli. Un realista atipico, che ha sempre voluto l’impossibile». E in fondo è giusto che sia proprio questo eroe sportivo, condannato alla vittoria e alla perfezione, a condurre il racconto, fornendoci il punto di vista preponderante su molti eventi che lo hanno coinvolto.
Difficile non rimanere ipnotizzati di fronte a questo gigante, che, da star consumata, davanti alla telecamera si confessa, si diverte e ritorna senza particolari remore su rancori mai sopiti. Nel corso di poco più di 8 ore, particolarmente dense di emozioni e contenuti, ripercorriamo i suoi primi anni a Chicago, contraddistinti dalla mediocrità della sua squadra e dalla luminosità delle sue doti, già evidenti alle più grandi star della lega, Larry Bird e Magic Johnson. Viviamo con lui la frustrazione per le ripetute sconfitte e percepiamo la sua gioia per il suo primo sospirato three-peat, nel corso del quale impara a fidarsi dei propri compagni e a sfruttarli nei momenti di massima pressione. Ma l’ottovolante emotivo di The Last Dance indugia anche sui momenti difficili, come le polemiche sul vizio di Jordan per il gambling, l’uccisione del padre e il primo ritiro dal basket, seguito da un’esperienza nel baseball.
Un documentario jordancentrico
Alla caduta, segue la resurrezione sportiva, con il ritorno sul parquet, una condizione fisica ottimale da ritrovare e nuovi avversari da sfidare per il suo secondo three-peat. Una volta raggiunto l’apice, ad alimentare Jordan è il gusto per la sfida, anche e soprattutto personale. Ne sono la prova i battibecchi con Magic Johnson durante le partite di allenamento del Dream Team, le incaute parole di Nick Anderson (che sosteneva che il giocatore rientrato in NBA col 45 fosse diverso da quello che se n’era andato col 23) e le estemporanee performance maiuscole di molti avversari, che diventavano immancabilmente benzina per la vendetta sportiva di Jordan e per la sua ennesima dimostrazione di onnipotenza sul campo.
Un percorso che, con le dovute proporzioni, sembra quasi ricalcare quello di Michael Corleone ne Il padrino – Parte II, sempre più potente e adorato, ma allo stesso tempo sempre più solo e consumato dalla sua ossessione.
Anche quando The Last Dance si allontana temporaneamente dalla figura di Michael Jordan, dando giustamente spazio ad altre figure come i già citati Jackson e Pippen o i vari Steve Kerr, John Paxson, Toni Kukoc e Horace Grant, determinanti per i suoi successi, tutto si riconduce alla figura MJ, a qual era il suo rapporto con un determinato giocatore, a cosa i compagni pensavano e pensano di lui e a quelle che invece sono le considerazioni del numero 23 su di loro. Un jordancentrismo narrativo, che nonostante l’impegno da parte di Jason Hehir nel dare spazio e voce anche agli altri protagonisti della NBA di quegli anni diventa il principale difetto di The Last Dance, nonché fonte di molte polemiche dopo la fine della serie, da parte di personaggi che ritengono non del tutto fedele la versione esposta dei fatti.
The Last Dance e le fragilità di Michael Jordan
Non spetta a noi in questa sede stabilire quali e quante siano le forzature, le omissioni e le idealizzazioni di The Last Dance. Nonostante la figura di Jordan risulti ingombrante anche fuori dal campo, e in particolare nella produzione di una docu-serie come questa, Hehir ha però evitato il rischio dell’agiografia, e ha fatto bene il lavoro del documentarista, che è anche quello di essere scomodo e ficcante, in diverse occasioni. In mezzo alle tante magie sul campo, vediamo infatti Jordan varie volte con le spalle al muro, come quando gli viene chiesto conto del suo mancato supporto al candidato afroamericano della North Carolina Harvey Gantt contro il dichiaratamente razzista Jesse Helms («Anche i repubblicani comprano le sneakers», disse Jordan in proposito) o dei suoi comportamenti da bullo e aguzzino nei confronti dei compagni, in particolare dei più deboli.
È in questi momenti più cupi che paradossalmente emerge il Jordan più fragile, e di conseguenza più vero. Un uomo che parla apertamente del suo presunto “problema” col gioco d’azzardo (problema da qualche milione, a fronte di uno stipendio annuale di diverse decine di milioni di dollari), che manifesta la sua imperfezione e la sua lontananza dalla figura di un eroe senza macchia e politicamente impegnato e che ha addirittura un piccolo crollo emotivo quando parla delle angherie riservate ai suoi compagni e della sua tirannia nello spogliatoio, cercando solo una piccola autoassoluzione nel fatto di non aver mai preteso dagli altri niente che lui non facesse in prima persona, in partita e in allenamento. Parole, espressioni e silenzi che ci raccontano molto di un personaggio complesso e tormentato, consapevole della propria immagine di idolo delle masse, ma incapace di incarnarla pienamente.
Condannato a vincere
Al termine dell’epopea dei Bulls e degli ultimi 40 straordinari secondi della seconda vita cestistica di Michael Jordan («Un invito all’ateismo», secondo il solito Buffa) con canestro in solitaria, palla recuperata e altro canestro della vittoria, dopo aver mandato a spasso Bryon Russell, torniamo nuovamente a quel gigante seduto in poltrona davanti a una telecamera, che questa volta ci sembra ancora più solo. Lo abbiamo visto commuoversi, sogghignare per l’agognato trionfo contro Detroit e spendere parole al miele per Jackson, Pippen e per il suo erede designato Kobe Bryant (a cui viene dedicato un toccante omaggio), ma il suo volto è ancora attraversato da un alone di insoddisfazione e tristezza.
Coerentemente con quanto narrato, questo racconto epico non si conclude né con la soddisfazione per ciò che Jordan ha conquistato, né con una panoramica sulla sua vita da proprietario dei Charlotte Bobcats (abbastanza incolore), né con un approfondimento sulla sua famiglia (che compare solo per pochi minuti). L’immagine finale che ci consegna The Last Dance è quella di un uomo ancora consumato dalla competizione e dal rimpianto per il disfacimento dei Bulls, che verosimilmente darebbe tutto ciò che ha per avere un’altra occasione di giocarsi il settimo titolo con quegli stessi fantastici compagni. Un eroe moderno, solitario e imperfetto, condannato all’inappagamento e all’impossibilità di sfidare nuovamente se stesso. La conclusione ideale per un viaggio nell’ossessione e nella competitività, destinato a rimanere nei nostri ricordi per molto tempo.
Overall
Verdetto
Nonostante una visione parziale degli eventi narrati e un inevitabile jordancentrismo del racconto, The Last Dance riesce nell’intento di restituire ad appassionati e non la grandezza dell’epopea dei Chicago Bulls e del loro fuoriclasse Michael Jordan, indagando al tempo stesso sull’ossessione per la competizione e per la vittoria di quest’ultimo.
Focus
Netflix: tutte le nuove uscite che vedremo a febbraio 2022

Anche a febbraio, Netflix ha in serbo tante novità per i propri abbonati, a cominciare dal ritorno di due serie particolarmente amate come Disincanto e Space Force. Non mancano i film originali, come Dalla mia finestra, Il mese degli dei e Amore e guinzagli. Spazio come sempre anche a documentari e reality show, come Il truffatore di Tinder e L’amore è cieco. Di seguito, l’elenco completo di quello che vedremo il prossimo mese su Netflix.
Cosa vedremo su Netflix a febbraio 2022
1 febbraio
- Dion (serie originale, stagione 2)
- Finding Ola (serie originale, stagione 1)
- John Wick (film non originale)
- Riverdale (serie non originale, stagione 5)
- Conan il ragazzo del futuro (serie non originale, stagione 1)
2 febbraio
- Oscuro desiderio (serie originale, stagione 2)
- Me Contro Te – Il Film – La Vendetta del Sig. S (film non originale)
- Il truffatore di Tinder (documentario originale)
3 febbraio
- Murderville (serie originale, stagione 1)
4 febbraio
- Dalla mia finestra (film originale)
- Il colore delle magnolie (serie originale, stagione 2)
6 febbraio
- Brooklyn 99 (serie non originale, stagione 7)
8 febbraio
- Il mese degli dei (film originale)
- Ms. Pat: Y’All Wanna Hear Something Crazy? (stand-up comedy originale)
- L’amore è cieco: Giappone (reality show originale)
9 febbraio
- Disincanto (serie originale, stagione 4)
- Idee da vendere (reality show originale, stagione 1)
11 febbraio
- Amore e guinzagli (film originale)
- Tallgirl 2 (film originale)
- Bigbug (film originale)
- Jeen-Yuhs: A Kanye Trilogy (film originale)
- Love Tactics (film originale)
- Inventing Anna (serie originale, stagione 1)
- Toy Boy (serie originale, stagione 2)
- L’amore è cieco (reality show originale, stagione 2)
14 febbraio
- Fedeltà (serie originale, stagione 1)
16 febbraio
- Secrets of Summer (Cielo Grande) (serie originale, stagione 1)
17 febbraio
- Perdonaci i nostri peccati (film originale)
- Erax (film originale)
- Heart Shot – Dritto al cuore (film originale)
- Il giovane Wallander (serie originale, stagione 2)
- Al passo con i Kardashians (reality show non originale, stagione 17)
18 febbraio
- Non aprite quella porta (film originale)
- La serie di Cuphead! (serie originale, stagione 1)
- Space Force (serie originale, stagione 2)
- Uno di noi sta mentendo (serie originale, stagione 1)
- Downfall: Il caso Boeing (documentario originale)
19 febbraio
- Venom (film non originale)
- Non mi uccidere (film non originale)
22 febbraio
- Bubba Wallace: in gara contro ogni limite (serie originale, stagione 1)
25 febbraio
- Vikings: Valhalla (serie originale, stagione 1)
- La giudice (serie originale, stagione 1)
- Madea: Il ritorno (film non originale)
Focus
Netflix: tutte le nuove uscite che vedremo a gennaio 2022

Netflix inaugura il 2022 con il ritorno di tre serie particolarmente amate dal pubblico, cioè Ozark (quarta stagione), After Life e Snowpiercer (entrambe al terzo ciclo di episodi). Fra i reality, spazio alla terza stagione di Too Hot to Handle, mentre fra i film originali in arrivo sulla piattaforma spicca il dramma storico Monaco: sull’orlo della guerra. Di seguito, l’elenco completo di quello che vedremo a gennaio su Netflix.
Tutto ciò che vedremo a gennaio 2022 su Netflix
1 gennaio
- Incastrati (serie originale, stagione 1)
- Manifest (serie non originale, stagioni 1-3)
- The Big Bang Theory (serie non originale, stagione 12)
- The Good Doctor (serie non originale, stagione 4)
- Sicario (film non originale)
- Operazione amore (serie non originale, stagione 3)
- Superstore (serie non originale, stagione 6)
- Nessuno come noi (film non originale)
- Love etc. (film non originale)
- Passengers – Mistero ad alta quota (film non originale)
- Percy (film non originale)
- The Reader – A voce alta (film non originale)
- Orders to Kill (film non originale)
- Restless Natives (film non originale)
- The Conquest of Everest (film non originale)
- The Cruel Sea (film non originale)
- Le Diable Par La Queue (film non originale)
- Convoy (film non originale)
- Intruder (film non originale)
- The Iron Maiden (film non originale)
- Così come sei (film non originale)
- Amici come prima (film non originale)
- Se son rose… (film non originale)
- S.W.A.T.: Sotto assedio (film non originale)
- Ti presento Sofia (film non originale)
- 12 Soldier (film non originale)
2 gennaio
- For Life (serie non originale, stagione 1)
3 gennaio
- Bad Boys for Life (film non originale)
4 gennaio
- Action Pack – Squadra in azione (serie animata originale, stagione 1)
5 gennaio
- Doctor Sleep (film non originale)
- Rebelde (serie originale, stagione 1)
- 4 Metà (film originale)
- Motherless Brooklyn – I segreti di una città (film non originale)
6 gennaio
- The Club (serie originale, stagione 1 parte 2)
- El Paramo – terrore invisibile (film originale)
- Uncle Drew (film non originale)
7 gennaio
- Mother/Android (film originale)
- Una festa esagerata (film non originale)
- Puoi baciare lo sposo (film non originale)
- Classe Z (film non originale)
- Hype House (serie non originale, stagione 1)
10 gennaio
- Undercover (serie originale, stagione 3)
- I magnifici sette (film non originale)
11 gennaio
- L’origine du monde (film originale)
12 gennaio
- How I Fell in Love With a Gangster (film originale)
13 gennaio
- The Journalist (serie originale, stagione 1)
- Brazen (film originale)
- Photocopier (film originale)
14 gennaio
- After Life (serie originale, stagione 3)
- Archive 81 – Universi alternativi (serie originale, stagione 1)
- The House (serie animata originale, stagione 1)
- Riverdance – L’avventura animata (film originale)
- El comediante (film originale)
18 gennaio
- DOTA: Dragon’s Blood: Book (serie anime originale, stagione 2)
19 gennaio
- Too Hot to Handle (reality originale, stagione 3)
- Viaggi prelibati: Messico (docuserie originale, stagione 1)
20 gennaio
- Il trattamento reale (film originale)
- Midnight Asia: Mangia · Balla · Sogna (docuserie originale, stagione 1)
21 gennaio
- Ozark (serie originale, stagione 4)
- Monaco: sull’orlo della guerra (film originale)
25 gennaio
- Snowpiercer (serie originale, stagione 3)
- Neymar – Il caso perfetto (miniserie originale)
27 gennaio
- Soy Georgina (serie originale, stagione 1)
28 gennaio
- Getting Curious with Jonathan Van Ness (serie originale, stagione 1)
- La donna nella casa di fronte alla ragazza dalla finestra (serie originale, stagione 1)
Netflix
Don’t Look Up: recensione del film con Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence

Il cinema di Adam McKay è incentrato sui mediocri. Dei mediocri che a volte diventano pretesti per racconti demenziali, come il suo esordio Anchorman – La leggenda di Ron Burgundy e le successive collaborazioni con Will Ferrell, ma che in altri casi si trasformano in feroci e sfrenate satire sul mondo e sulla società, come nel caso de La grande scommessa, Vice – L’uomo nell’ombra e della sua ultima fatica Don’t Look Up, disponibile dall’8 dicembre nelle sale italiane e su Netflix dal 24 dello stesso mese. Un progetto esaltato da un cast stellare, che comprende ben 5 premi Oscar (Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Mark Rylance, Cate Blanchett e Meryl Streep) e altri formidabili interpreti del calibro di Timothée Chalamet, Jonah Hill, Ron Perlman, Rob Morgan e Tyler Perry.
Dopo la tragicomica ricostruzione della crisi finanziaria del 2007-2008 e l’inquietante ricostruzione della parabola politica di Dick Cheney, Adam McKay mette di nuovo al centro del mirino le istituzioni, che si trovano costrette ad affrontare l’imminente impatto della Terra con una cometa di circa 9 chilometri di diametro, capace di distruggere la vita su tutto il pianeta nel giro di pochi minuti. Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence, nei panni rispettivamente del professore di astronomia Randall Mirby e della sua studentessa Kate Dibiasky, sono i rappresentanti della scienza, impegnata a fornire ai governi e ai cittadini dati inoppugnabili con i quali prendere decisioni importanti e urgenti.
Dall’altra parte, la Presidente USA Janie Orlean (una trumpiana Meryl Streep), il suo arrogante figlio Jason (Jonah Hill), la presentatrice Brie Evantee (una sontuosa Cate Blanchett, pur sepolta da chili di trucco) e il guru della tecnologia Peter Isherwell (Mark Rylance in un bizzarro incrocio fra Steve Jobs, Mark Zuckerberg ed Elon Musk). Un manipolo di pericolosi incompetenti contro la più pericolosa minaccia globale. Cosa può andare storto?
Don’t Look Up: un tragicomico sguardo sul nostro prossimo futuro
Adam McKay è nato con la commedia, è stato forgiato come sceneggiatore dai suoi anni al Saturday Night Live e sa che attraverso la risata e un delicato equilibrio fra satira e grottesco si può ironizzare e fare riflettere su ogni cosa, come ci ha insegnato Stanley Kubrick col suo immortale Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba. Non stupisce quindi che questo regista statunitense, sempre più abile e tagliente, usi nuovamente il ridicolo e l’eccesso per mettere alla berlina tutte le categorie umane che ci circondano. In un curioso mix fra lo scenario di Idiocracy e la trama di Deep Impact, quasi tutti ne escono con le ossa rotte.
La rappresentazione più feroce è dedicata alle figure più potenti. Conosciamo quindi una politica più interessata alle elezioni di metà mandato che a un cataclisma mondiale, che non esita a sminuire la minaccia e a soffiare sull’ignoranza e sugli estremismi, lanciando un movimento che invita a non guardare in alto (da qui il titolo Don’t Look Up), in opposizione a chi implora di alzare lo sguardo per osservare con i propri occhi l’arrivo della cometa.
Immancabile poi la critica ai giganti della tecnologia, con il tycoon di Mark Rylance che riassume tutte le caratteristiche più sinistre dei giganti del tech, come l’impatto sulla nostra vita (la capacità degli algoritmi di prevedere i nostri futuri passi attraverso la piena conoscenza delle nostre attività), i collegamenti con la politica (Peter Isherwell è un finanziatore della campagna presidenziale di Janie Orlean) e il desiderio di impattare su ogni aspetto della nostra esistenza (l’app che propone buffi video di animali quando rileva ansia o malinconia).
Fra satira e parodia
In filigrana, emergono chiaramente i tre principali bersagli di Don’t Look Up: una classe politica cinica e totalmente priva di visione del futuro, coccolata dai colossi della finanza e della tecnologia; lo stato attuale dell’informazione sul Covid, con gli scienziati che a causa della pressione di negazionismi e riduzionisti faticano sempre di più a fare emergere la verità, e che anche quando ci riescono finiscono per essere inglobati dal sistema (si veda l’ascesa del personaggio di Leonardo DiCaprio nello star system e sui media, in una parabola che ricorda quella di tanti virologi negli ultimi mesi); infine, la minaccia mondiale che è costantemente sotto i nostri occhi, ben documentata dai ricercatori e nonostante ciò ignorata dalla stragrande maggioranza delle persone, cioè il cambiamento climatico, la vera cometa che si sta avvicinando alla Terra.
Muovendosi lungo queste direttrici, Adam McKay mette in scena una commedia spassosa e impertinente, che gioca con i cliché del cinema di fantascienza degli ultimi decenni (esilarante soprattutto il personaggio di Ron Perlman, vera e propria parodia dell’eroismo e della mascolinità sulla scia del Bruce Willis di Armageddon – Giudizio finale) e trova alcune notevoli intuizioni comiche in sceneggiatura, come le ripetute gag sugli snack fatti pagare alla Casa Bianca (vero e proprio trauma per il personaggio di Jennifer Lawrence) o la previsione dell’algoritmo sul futuro della Presidente Janie Orlean (sia al cinema che a casa, non alzatevi prima della fine dei titoli di coda!).
Il cast di Don’t Look Up
Con le sue precedenti opere, Adam McKay ci aveva presentato soluzioni originali e di forte impatto dal punto di vista registico, come la crisi dei mutui subprime spiegata da Margot Robbie dentro una vasca da bagno ne La grande scommessa o il racconto che ricomincia letteralmente da capo in Vice – L’uomo nell’ombra. Con Don’t Look Up, il regista dà vita a un’opera decisamente lineare, che abbraccia quasi sempre l’assurdo e che trova proprio nei momenti più drammatici i suoi pochi momenti di debolezza. È questo il caso del personaggio di Jennifer Lawrence, che duella in bravura con Leonardo DiCaprio per buona parte del racconto prendendo le parti della logica e della razionalità, per poi mostrare la corda nel momento in cui si cerca di attribuirle sfumature più cupe e malinconiche.
Lo stesso Leonardo DiCaprio sembra a tratti faticare a rendere il disagio di un uomo di scienza perso fra ricerca e inaspettata popolarità, nucleo familiare e avance di una Cate Blanchett che interpreta alla perfezione l’essenza della falsità e dell’arrivismo. Da attore di sconfinato talento e impareggiabile carisma, DiCaprio riesce però anche a rubare la scena a tutti i colleghi, con un’esplosione di ira e di sdegno che è già antologia della storia recedente del cinema e grazie a cui metterà con ogni probabilità un’ennesima nomination all’Oscar nel suo prestigioso curriculum.
Mentre il già citato Il dottor Stranamore teneva dritta la barra sulla satira e sull’assurdo, trovando paradossalmente l’essenza dei personaggi e del loro contesto, Adam McKay ritrae in più di un’occasione la mano, cercando una non necessaria sponda drammatica (come i troppi stacchi sulle reazioni della popolazione mondiale agli eventi) invece di puntare senza indugi sul suo meraviglioso ensemble, che funziona invece a meraviglia soprattutto quando si muove sopra le righe.
Don’t Look Up: un monito sul prossimo futuro
Don’t Look Up adempie comunque al proprio compito, lasciandoci più dubbi che certezze e più disagio che piacevolezza, nonostante le tante risate che regala. Questo perché, come evidenzia brillantemente il poster, l’opera di Adam McKay è basata su fatti realmente possibili e su scene squisitamente demenziali che sono molto meno improbabili di quanto crediamo. Fino a qualche anno fa, sarebbe stato difficile anche solo pensare a un Presidente degli Stati Uniti che invita a guardare in basso e a non credere agli allarmismi, a un’imminente catastrofe ignorata in favore del profitto e a un colosso tecnologico che dichiara esplicitamente di voler conoscere tutti i nostri pensieri per venderci la soluzione a bisogni che non sapevamo di avere.
Oggi sappiamo invece che tutto questo è realistico, se non addirittura probabile. Se c’è ancora la possibilità di salvarci dall’autodistruzione, la ricetta passa sicuramente da quello che ci mostra e ci suggerisce Don’t Look Up. Non ci resta quindi che smettere di dividerci in assurde fazioni, mettere da parte il trending topic del giorno e cominciare a costruire un futuro migliore. Senza mai smettere di guardare in alto.
Overall
Verdetto
Don’t Look Up è l’ennesimo gioiello esilarante e pungente della carriera di Adam McKay. Un cast stellare e in ottima forma mette in scena una storia talmente bizzarra e surreale da essere perfetta per la nostra confusa epoca. Un monito sul prossimo futuro da non sottovalutare e di cui fare tesoro.