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Un mercoledì da leoni: recensione del film di John Milius

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Tre amici, una tavola da surf e quattro grandi mareggiate, che corrispondono ad altrettante stagioni della vita. Questa la semplice ricetta alla base di Un mercoledì da leoni, capolavoro di John Milius. Un’opera densa, appassionata, struggente, in cui il regista americano, autoproclamatosi “l’anarchico zen”, riversa letteralmente tutto se stesso e tutta la sua gioventù, passata a cavalcare le onde californiane, prima di fare la storia di Hollywood non solo alla regia (suoi Il vento e il leone e Conan il barbaro), ma anche come sceneggiatore, grazie alla sua firma sugli script dei memorabili Corvo rosso non avrai il mio scalpo e Apocalypse Now.

Un racconto personale e allo stesso tempo universale, in cui chiunque può facilmente rivedersi, ma che nonostante ciò ha faticato a guadagnare la considerazione di cui gode attualmente da parte del pubblico e della critica. Celebre in proposito la scommessa fra Milius e gli amici George Lucas e Steven Spielberg, che, convinti delle potenzialità di Un mercoledì da leoni al botteghino, accettarono di scambiare con lui una piccola percentuale dei profitti della sua opera con quelli dei loro Guerre stellari e Incontri ravvicinati del terzo tipo. Pessimo affare per i due, che scambiarono una quota dei clamorosi incassi dei loro lavori con una molto più esigua del flop commerciale di Milius, che invece ammise candidamente di aver pagato le spese del suo divorzio con i proventi di questo azzardo, pur conservando il rammarico per l’insuccesso.

Un mercoledì da leoni: il capolavoro di John Milius

Un mercoledì da leoni

Troppo spesso ridotto a mero “film sul surf”, Un mercoledì da leoni non è soltanto il più fulgido inno a questo meraviglioso sport, ma è anche e soprattutto uno dei più toccanti inni all’amicizia virile mai visti sul grande schermo. La narrazione è scandita da 4 grandi mareggiate che colpirono la California, nel 1962, 1965, 1968 e 1974. In questo lungo lasso di tempo, seguiamo le avventure del folle Leroy (Gary Busey), del serioso Jack (William Katt) e dell’estroso ma inaffidabile Matt (Jan-Michael Vincent), i re incontrastati della spiaggia e delle onde, che corrono a cavalcare ogni volta che possono, con le tavole da surf preparate dall’imperscrutabile Bear (Sam Melville). L’oceano è il collante della loro amicizia e quelle due colonne che attraversano ripetutamente per raggiungere l’acqua sono l’ideale confine fra il loro eterno spirito fanciullesco e avventuroso e quel mondo che cambia inesorabilmente intorno a loro.

Incontriamo Matt, Jack e Leroy da ragazzi, impegnati in party goliardici che sembrano usciti da Animal House (in sala nello stesso 1978 di Un mercoledì da leoni), li seguiamo nelle prime difficoltà della vita, come una gravidanza inattesa che mette Matt di fronte alle responsabilità, e viviamo con loro il dramma per eccellenza di un’intera generazione americana: quel Vietnam che se non si riesce a evitare con qualche stratagemma, cambia per sempre la vita di chi è costretto ad affrontarlo.

Un malinconico inno all’amicizia e al surf

Milius concentra tutti i suoi virtuosismi nelle riprese fra le onde, donandoci le migliori scene di surf mai girate. Sentiamo il mare infrangersi sui corpi dei protagonisti e viviamo i loro brividi con delle indimenticabili inquadrature acquatiche, percorrendo addirittura dalla loro prospettiva quella sorta di tunnel d’acqua che si restringe progressivamente, pronto a inghiottire i surfisti non all’altezza della situazione. Ma se possibile, Milius si supera quando lavora di sottrazione, raccontando i sentimenti dei protagonisti non con le parole, ma con gli sguardi e i gesti.

Quest’uomo burbero e reazionario (ricordiamo che il personaggio di Walter Sobchak ne Il grande Lebowski è basato proprio su John Milius) riesce a toccare corde del cuore che in pochissimi sanno trovare, mettendo in scena quella ritrosia mista a orgoglio che impedisce a molte persone di esprimere verbalmente i loro sentimenti. Accade così che Jack colpisca con un pugno il fraterno amico Matt, per fargli capire il suo sdegno per l’incidente automobilistico da lui procurato, che gli amici salutino lo stesso Jack prima della sua partenza per il Vietnam con abbracci calorosi, invece che con commoventi discorsi di commiato, e che sempre quest’ultimo, al ritorno dopo la leva, abbia come prima tappa la spiaggia e una nuova cavalcata sulle onde con gli amici, e solo in un secondo momento decida di fare visita alla ragazza che ha lasciato partendo per il fronte.

Un mercoledì da leoni: la nostalgia secondo Milius

Un mercoledì da leoni

In tutte queste situazioni, le parole sono ridotte al minimo indispensabile, perché a parlare è un codice inesprimibile verbalmente, che può però facilmente essere compreso da chiunque abbia sofferto per un amico perduto e ritrovato, da coloro che si sono ritrovati a crescere prima del previsto e da tutti gli adulti che conoscono la nostalgia per gli spensierati tempi della loro giovinezza. Un invito a fare correre le tavole da surf diventa così un “mi sei mancato”, la morte di un comune amico si trasforma nell’occasione per ricordare e condividere i timori per il futuro, un’esortazione a brindare si traduce in una misurata richiesta di riconciliazione e quel “fatevi vedere, capito?” conclusivo non è altro che un disperato e forse vano invito a non perdersi di nuovo di vista.

Milius riesce a fotografare un’epoca e a inserirsi perfettamente nel filone della nostalgia lanciato pochi anni prima dall’amico George Lucas con American Graffiti, e lo fa sbattendoci continuamente in faccia il suo modo di vedere il mondo, certamente opinabile ma indiscutibilmente personale: tutto ciò che conta avviene in mare, tutto il resto è vissuto, soprattutto dal fenomeno del gruppo Matt, quasi come una distrazione dalle imprese acquatiche.

Ed è qui che il legame fra Un mercoledì da leoni e John Milius diventa indissolubile, e addirittura profetico sul resto della carriera del regista. Un uomo che ha visto fallire miseramente al botteghino la sua opera più personale (meno di 5 milioni di dollari l’incasso totale di Un mercoledì da leoni, nonostante l’imperitura adorazione da parte dei cinefili e dalla comunità dei surfisti), e che da quel momento si è visto progressivamente escludere da Hollywood, nonostante la sua abilità più unica che rara nel cesellare i personaggi e le loro storie.

Bear e John Milius

A commuovere è soprattutto il parallelo fra Milius e Bear, il personaggio più chiaramente autobiografico di Un mercoledì da leoni. Proprio come l’impenetrabile costruttore di tavole, Milius è il leader carismatico del gruppo, nonché un uomo che ha perso tutto proprio per la sua fedeltà al suo personale punto di vista. L’uomo che ha saputo regalare a Steven Spielberg la scena chiave del suo Lo squalo (il monologo di Robert Shaw è scritto da lui), consegnare alla storia il Clint Eastwood di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (suo quel leggendario Go ahead, make my day) e servire a Francis Ford Coppola la partitura perfetta per il suo Apocalypse Now, è stato gradualmente messo ai margini dell’industria, a causa del suo carattere difficile, delle sue idee reazionarie e dei successivi Conan il barbaro e Alba rossa, peccati mortali in un ambiente sempre più progressista.

Ma sia Bear che Milius hanno un’ancora a cui aggrapparsi in ogni situazione, cioè le loro storie. Quelle fra le onde, che il personaggio di Sam Melville scruta in attesa di quella epocale mareggiata, e quelle su pellicola, che Milius ha continuato a tessere anche lontano dalla macchina da presa (Caccia a Ottobre Rosso, la serie Roma). «Io sono l’uomo delle pulizie», dice Bear schernendosi nelle battute conclusive di Un mercoledì da leoni. Ed è con questo spirito che ci immaginiamo Milius, reduce dal declino della sua carriera e da un tremendo ictus che ne ha danneggiato le capacità verbali, ma ancora in attesa della sua personale grande mareggiata, cioè quella sceneggiatura di Genghis Khan che, nonostante tutto e tutti, sta continuando a scrivere e rielaborare. L’ultima onda che desidera ardentemente domare della sua carriera.

Jan-Michael Vincent dentro e fuori da Un mercoledì da leoni

E a proposito di vita che imita l’arte, che a sua volta imita la vita, è doveroso spendere qualche parola anche su Jan-Michael Vincent e sul suo personaggio, quello più turbolento e irrisolto di Un mercoledì da leoni. Anche in questo caso, la realtà ha avuto un cinico senso dell’umorismo, conducendo Vincent verso un cammino autodistruttivo ancora peggiore di quello di Matt. Prima della sua morte, avvenuta lo scorso anno, Jan-Michael Vincent ha toccato il cielo con un dito, arrivando a guadagnare 40.000 dollari per ogni episodio di Airwolf, poi ha vissuto il declino, accelerato dallo smodato consumo di droghe e alcool.

La cronaca dei suoi ultimi anni di vita e le sue ultime immagini sono impietose: un incidente che gli ha compromesso la voce e tre vertebre, due infezioni che lo hanno portato all’amputazione di una gamba e lo spreco di una fortuna economica, che lo ha condotto a un debito di decine di migliaia di dollari col fisco. Ma a non indebolirsi minimamente nei nostri cuori è il suo Matt, che vede progressivamente sfuggire la gloria e si trova costretto ad accettare di avere fatto epoca e di dover lasciare andare una parte di sé e dei suoi ricordi.

«Un amico serve quando hai torto. Quando hai ragione non ti serve a niente», dice Bear a Matt in Un mercoledì da leoni. Scontato pensare che quando John Milius e Jan-Michael Vincent hanno avuto torto, avrebbero davvero avuto bisogno di un buon amico.

Il finale di Un mercoledì da leoni

Un mercoledì da leoni

A lanciare Un mercoledì da leoni nell’Olimpo del cinema della Nuova Hollywood è proprio il suo commovente finale, che racchiude l’intero senso del racconto. Quella grande mareggiata auspicata per anni da Bear arriva, e con lei la prova finale per Jack, Matt e Leroy. Quando vediamo Matt attraversare di nuovo quelle colonne, che separano la vita reale da quella ideale, le difficoltà dalle avventure, sappiamo già che, come nella primissima scena, accanto a lui e sotto il vigile sguardo di Bear ci saranno i due amici di sempre, pronti a chiudere idealmente un cerchio. Ma il significato della mareggiata del 1974 non è meramente sportivo.

I nostri, e soprattutto l’ex dominatore del surf Matt, escono dalle onde acciaccati, costretti ad ammettere che la loro epoca è finita, per fare spazio ai nuovi fenomeni come Gerry Lopez (che interpreta se stesso) o alle nuove leve, simboleggiate dal ragazzo che si congratula per il suo virtuosismo con lo stesso Matt, ricevendo in dono la tavola da lui usata per la sua performance.

Quei giganteschi cavalloni non sono altro che una metafora dei momenti più difficili della vita, che possono travolgerci e buttarci a terra, ma anche farci superare anni di frasi non dette, di rancori mai sopiti e di sentimenti repressi, portandoci ad accettare il sostegno e l’affetto delle persone che per noi contano veramente. Le musiche di Basil Poledouris suggellano il momento, passando dai toni epici delle riprese acquatiche a venature malinconiche, per l’ultimo abbraccio fra i protagonisti.

Un amico serve quando hai torto. Quando hai ragione non ti serve a niente

Un mercoledì da leoni

Il loro percorso è finito, e non ci resta che lasciarli attraversare per l’ultima volta le colonne, con quelle sgangherate assi di legno che incorniciano una sorta di portale fra passione e realtà. Per Matt, Jack e Leroy è arrivato il momento di abbandonare i sogni e affrontare una nuova fase della loro esistenza, consapevoli che una parte di loro rimarrà sempre su quella spiaggia, in attesa che le onde tornino ad alzarsi.

– A cosa devo brindare?
– Solo ai tuoi amici. Agli amici di allora, di oggi e di sempre.

Un mercoledì da leoni

Overall
10/10

Verdetto

Con Un mercoledì da leoni, John Milius realizza il capolavoro della sua carriera. Un nostalgico inno all’amicizia e al surf che attraversa due decenni di storia americana, di fronte al quale è difficile non commuoversi.

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Scream (2022): recensione del film di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

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Scream

Dopo la commedia dell’orrore Finché morte non ci separiMatt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett si confrontano con una pietra miliare del cinema horror come Scream, dando vita a quello che, come enunciato dagli stessi protagonisti del film, si presenta come un vero e proprio “requel” della serie, a metà strada fra un classico sequel e un vero e proprio reboot. Un’attitudine rimarcata dal titolo: nonostante sia a tutti gli effetti il quinto capitolo della serie creata dal genio di Wes Craven, Scream porta infatti lo stesso nome del capostipite, senza il suffisso del numero 5.

Sono passati 10 anni da Scream 4 e dagli eventi in esso raccontati. Il mondo è totalmente cambiato, e con lui il cinema horror, indirizzato verso una svolta più autoriale dai vari Jordan Peele, Robert Eggers e Ari Aster. A non cambiare è però la fascinazione della cittadina di Woodsboro, teatro della ripetuta odissea personale di Sidney Prescott e delle persone a lei care. In uno dei tanti squisiti rimandi al primo film della serie, assistiamo così a una riproposizione della leggendaria intro con protagonista Drew Barrymore, che vede stavolta al centro delle attenzioni dell’iconico ghostface Jenna Ortega e la sua Tara Carpenter (il cui cognome è un chiaro omaggio a un maestro del cinema horror).

Tara ama Babadook, è inseparabile dal suo smartphone ed è forte di un sistema di sicurezza che le permette di bloccare istantaneamente le porte di casa, ma come quella ragazza del 1996 si ritrova sola e indifesa davanti all’orrore e alla follia. È l’inizio di una nuova ondata di terrore e violenza che, come da tradizione della serie, è anche uno spunto di riflessione sullo stato del cinema e sui vizi e le ossessioni degli stessi cinefili.

Il nuovo Scream è il “requel” che ci meritiamo

Scream

Il nuovo Scream sfrutta abilmente il canovaccio dei capitoli precedenti, adattandolo al panorama dell’intrattenimento contemporaneo. Abbiamo infatti ancora un impianto da giallo (chi è l’assassino? O meglio, chi sono gli assassini?) applicato a dinamiche da horror adolescenziale, con immancabili feste e un gruppo di giovani protagonisti uno più ambiguo dell’altro. Non manca ovviamente la rivisitazione delle regole del cinema horror, proposte nel primo film dal personaggio di Randy Meeks e aggiornate nei vari sequel. È proprio a margine di queste regole che Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett mettono in scena una pungente satira del cinema contemporanea, senza paura di fare nomi e cognomi.

Emblematica è la menzione a Stab 8, ottavo capitolo della serie fittizia basata sugli eventi dei film di Scream, odiato dai fan perché il regista (lo stesso di Cena con delitto – Knives Out) si sarebbe macchiato di mancanza di rispetto nei loro confronti. Non è difficile unire i puntini e leggere in questo passaggio un attacco ai fan di Star Wars, che nel 2017 hanno riversato tutto il loro odio su Rian Johnson, regista appunto di Cena con delitto – Knives Out e colpevole secondo loro di aver stravolto il canone della saga nell’ottavo episodio Star Wars: Gli ultimi Jedi.

In un’ottica più generale, è l’intera industria hollywoodiana a essere messa sul banco degli imputati e definita senza metti termini “priva di idee”. Proprio i recenti progetti legati a Star Wars, insieme a Ghostbusters: Legacy e alla nuova trilogia di Halloween (protagonista anche di un obbrobrioso errore di adattamento su Jamie Lee Curtis nel doppiaggio italiano), diventano l’oggetto di un’analisi sui sequel moderni, che richiedono immancabilmente la presenza dei vecchi protagonisti delle saghe e di nuovi e più giovani personaggi a loro legati da vari rapporti di parentela.

Le scelte di casting

Da fine opera meta-cinematografica, il nuovo Scream rispetta lo spirito della serie e si immerge nella stessa critica che porta avanti, utilizzando proprio le parentele fra vecchi e nuovi protagonisti come pietra angolare su cui imbastire la trama. Qui cominciano le note dolenti di questo requel, in quanto nessuno dei nuovi personaggi (dalla già citata Jenna Ortega a Melissa Barrera) dimostra di avere il carisma necessario per ereditare il peso di una serie che si tramanda dal 1996, anche attraverso le demenziali parodie degli Scary Movie. Non è un caso che Scream ingrani la marcia proprio quando entrano in scena volti noti come Neve CampbellDavid ArquetteCourteney Cox, chiamati a guidare la riscossa contro lo strapotere di Ghostface, autore della sua immancabile mattanza.

In ottica meta-cinematografica, spiccano però alcune scelte di casting, come quelle di Dylan Minnette (già visto in Tredici), Mikey Madison (interprete di una delle seguaci di Charles Manson in C’era una volta a… Hollywood) e quella di Jack Quaid, figlio di Meg Ryan e Dennis Quaid ma soprattutto identico al giovane Joshua Jackson, interprete di Pacey in Dawson’s Creek. Come sempre, il Diavolo si nasconde nei dettagli: la mente dietro alla serie teen drama (esplicitamente citata in questo capitolo) e alla saga di Scream è sempre la stessa, cioè il talentuoso Kevin Williamson, in questo caso solamente produttore esecutivo.

L’ambizione di questo requel è chiaramente quello di dare un nuovo impulso a una serie che (almeno sul grande schermo) era ferma dal 2011. Restano i dubbi sull’effettiva possibilità da parte delle nuove leve di portare sulle proprie spalle il futuro di Scream. Probabilmente, per dare un seguito a questa pregevole operazione ci sarà ancora bisogno delle due eroine Neve Campbell e Courteney Cox.

L’eredità di Scream

Scream

Non stupisce che anche il quinto capitolo di una saga genuinamente e orgogliosamente derivativa poggi interamente sulle solide spalle dei precedenti episodi, sulla cultura pop contemporanea e su dinamiche ben consolidate. In particolare, i fan della prima ora del gioiello di Wes Craven e Kevin Williamson riconosceranno situazioni, inquadrature e dialoghi già messi in scena nei precedenti capitoli, e non faticheranno a intuire chi possa nascondersi dietro la maschera di Ghostface. A sorprendere di questo Scream non è però la soluzione del mistero, quanto piuttosto la motivazione alla base dell’ennesima scia di sangue a Woodsboro, che anche in questo caso punta severamente il dito contro l’estremismo e la tossicità di alcuni fan.

Scream non si è mai esaurito nella violenza in scena (in questo caso più esplicita che mai), ma ha sempre tracimato fuori dallo schermo. Questa serie non è solo uno spettacolo da guardare, ma un’opera da cui farsi guardare, lasciando che vengano a galla le nostre criticità e i nostri punti deboli. Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett colgono perfettamente questo spirito, consegnandoci un requel perfettamente al passo con questa confusa epoca, che utilizza ancora una volta l’intrattenimento e la paura per dare vita a un nuovo e aggiornato compendio sull’industria cinematografica e seriale.

Scream è nelle sale italiane dal 13 gennaio, distribuito da Eagle Pictures.

Overall
7.5/10

Verdetto

Il quinto capitolo di Scream è un “requel” perfettamente al passo coi tempi, capace di cogliere lo spirito della serie creata da Wes Craven e di portare avanti l’ennesima dura critica all’industria hollywoodiana.

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Matrix Resurrections: recensione del film di Lana Wachowski

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Matrix Resurrections

In Matrix Resurrections, dopo anni di assenza dagli schermi troviamo nuovamente Thomas Anderson (Keanu Reeves) alle prese con la sua vita. Ce lo ricordiamo come quell’informatico nottambulo, un outsider, un nerd impacciato e timido che nasconde i suoi chip illegali tra le pagine di Simulacri e simulazione, un uomo alla ricerca di risposte, vacue, improbabili, sgualcite, confuse, perché confuse sono pure le domande. Oggi come allora, Lana Wachowski ci porta in un presente esoscheletrato da fitte menzogne, diviso in un mefitico binarismo esiziale, e ci conduce in una realtà ben diversa, eppure in fondo sempre la stessa.

Matrix è qui, è ancora attorno a noi, sempre, e Neo la percepisce, ora come allora, solo che oggi assume le pillole blu per poterci vivere in maniera più o meno concreta, preferendo l’amnesia, la disconoscenza, alla verità. Ma quelle pillole sono solo un palliativo, la sua scelta narcotica, che per lui assumono la forma di una postura implicita, di una spinta inconscia, un istinto detentivo che non ha chiavi di accesso.

Neo è un gamer designer di successo, la sua vita passata è stata trafugata, trasfigurata e riscritta in questa nuova Matrix, il senso dei suoi ricordi hanno trovato via di fuga nella – presunta – fantasia di un’anima geek. Matrix ora è un gioco, un videogioco in tre capitoli. Tutti conoscono Morpheus, Trinity, cos’è Zion e quali sono le straordinarie capacità dell’eletto. Tutti hanno giocato una volta nella loro vita a Matrix, e nelle sue versioni ludiche l’eletto è la simulazione di una fantasia, l’illusione speculare del tuo io digitale. Non esistono proiezioni mentali, verità stagnanti o collisioni digitali, ma una iperrealtà che inghiotte tutto e smargina passato, presente e futuro.

Matrix Resurrections: il ritorno di Neo

Matrix Resurrections

Neo è un anima che vaga in loop, che si divide tra il lavoro e sedute dall’analista, e la sua vita è un infinito deja vu, un errore sistemico che si infrange ogni giorno, e che ogni giorno viene ricostituito, tanto vicino da potersene divincolare ma lontanissimo da poterlo realizzare. C’è un gioco di assoluti, di distanze e di assenze che abitano questa nuova (ir)realtà: Neo sopravvive solo grazie alla vicinanza a Tiffany (Carrie-Anne Moss), che qui assume le sembianze di una donna sposata senza alcun ricordo del suo passato, e grazie ai suoi ricordi, che in maniera parzialmente inconsapevole, ha la possibilità di rivivere attraverso la sua creatura, ed è Matrix il vittoriale della sua vita passata, custode della sua vita ma il riflesso della sua vertigine.

In questo sonno concettuale, esistenziale e simbolico, che si staglia nel suo cammino il desiderio di riappropriazione, non solo della sua vita, ma di nuovi orizzonti, che possano attraversare sia Matrix sia il bastione umano abitato da Niobe, Io. Le immagini, ora contratte, ora sottratte, sono abitate da nuove consapevolezze, da nuovi obiettivi, che non sono guerre, il potere o le macchine, ma le alleanze, l’indulgenza e l’amore. L’amore tra Neo e Trinity torna in modo detonante ed è proprio ciò che fa funzionare Matrix Resurrections, poiché come pubblico e come spettatrici siamo cresciute e cresciuti con il loro amore e con il loro esempio; tornare a Neo e Trinity è stato come tornare a casa.

Matrix è il simbolo del binarismo

L’intero Matrix Resurrections ci parla di come Neo e Trinity hanno bisogno di ritrovarsi, di ricongiungersi perché non possono esistere l’uno senza l’altro, un tema che trattiene un senso profondo e struggente dato che Lana Wachowski ha scritto Matrix Resurrections come un modo per far fronte alla morte dei propri genitori. Neo e Trinity insieme sono tutto ciò che può portare la pace nel mondo reale, il loro amore è talmente potente da portare pace a tutti.

Non c’è mai banalità e melò in questo mondo, ma alchimia, ipersimbolismo ed empatia. Un nuovo mondo che Lana Wachowski ha contribuito a incarnare, a secolarizzare, un mondo che si sottrae dalle impalcature della binarietà, e ci conduce in un universo da ricostruire, assieme, senza strutture, senza schemi, che dichiara in maniera totale e chiara che il sistema che noi conosciamo, questo sistema è fallito, e che l’errore di sistema è qui davanti a noi e ci abita tutti i giorni.

Se nei primi tre capitoli le Wachowski seminano indizi della loro identità e sensibilità trans, con Neo che ha una disforia e Matrix che è il simbolo del binarismo, con Matrix Resurrections l’intento di Lana Wachowski è attraversare nuovamente l’infinito che esiste tra maschio e femmina, e non solo attraverso il corpo, ma attraverso il mondo: non è più solo il corpo ad essere protagonista, nella sua transizione, ma è il mondo, come corpo da riattivare, da redimere, da rigenerare, da rieleggere a epitome ideologica, materiale espressivo di un mondo che va cambiato, che cambia, che va riallineato con ciò che sente di essere.

Matrix Resurrections: la rivendicazione di uno spazio metafilmico, narrativo ed estetico

Matrix Resurrections

System Failure è la dichiarazione più potente di Lana e Lilly Wachowski: era il 1999 e il mondo non era né pronto né capace di comprendere la complessità della vita e delle ragioni delle due sorelle. Affermare che Lana Wachowski con questo nuovo capitolo volesse ricreare l’empirismo di Matrix e riattivarne la leggenda è abbastanza disinteressante; quel che ci dicono le immagini è che i capitoli precedenti sono infingimenti videoludici, proiezioni, repliche il cui mito è scomparso. Neo non può più volare, i suoi poteri sono quasi andati perduti, anche i cattivi hanno quasi perso la speranza di potersi rivaleggiare sulla sua leggenda, perché è perduta sì, come lacrime nella pioggia.

Quel che ci lascia questo nuovo capitolo è la rivendicazione di uno spazio, (meta)filmico, narrativo ed estetico, la cui tensione è superare se stesso, superare il suo genere e anche il suo divismo. Oggi, forse, siamo più capaci di recepire il messaggio delle sorelle, il loro sogno, e non sonno, concettuale, la loro urgenza spirituale, e Lana Wachowski, oggi e sempre, ci mostra quanto un nuovo inizio sia possibile, necessario, e rifare Matrix e plasmarla sotto nuovi cieli, per usare una parola tanto cara all’agente Smith, sia inevitabile.

Matrix Resurrections è disponibile nelle sale italiane dall’1 gennaio, distribuito da Warner Bros.

Overall
9/10

Verdetto

Matrix Resurrections è la rivendicazione di uno spazio (meta)filmico, narrativo ed estetico, che vuole oltrepassare se stesso, superare il suo genere e anche il suo divismo. Un potenziale nuovo inizio, ma anche la perfetta chiusura del cerchio della serie.

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House of Gucci: recensione del film con Lady Gaga e Adam Driver

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House of Gucci

Sono due le vie principali per approcciarsi a House of Gucci, entrambe legittime e comprensibili. La prima vede l’84enne Ridley Scott nuovamente impegnato con una pagina nera della storia italiana a 4 anni da Tutti i soldi del mondo, ancora poco ispirato e di nuovo alle prese con una svogliata caricatura del nostro Paese. Da questo punto di vista, nonostante il sontuoso cast a disposizione (Lady Gaga, Adam Driver, Al PacinoJared LetoJeremy IronsSalma Hayek su tutti), House of Gucci è un’opera pacchiana ed estremamente superficiale, costantemente in bilico fra il trash involontario e la più totale inconsistenza, mai realistica o fedele alla vera storia di Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci.

In alternativa, possiamo dare fiducia a un cineasta che con opere del calibro di Alien e Blade Runner ha scritto pagine indelebili della storia del cinema, e che appena pochi mesi fa ha dato vita con The Last Duel a una sublime analisi delle società contemporanea mascherata da dramma storico. Seguendo questa strada, possiamo cercare di capire cosa ha spinto il regista britannico a dare vita a un lavoro così apparentemente bizzarro e sghembo e cosa sottende la sua messa in scena, più vicina a una farsa che a una rigorosa ricostruzione. Per quanto ci riguarda, noi abbracciamo con convinzione questa seconda ipotesi, pur comprendendo chi invece vedrà nell’ultima fatica di Scott un racconto profondamente respingente.

House of Gucci: l’autodistruzione di una famiglia
House of Gucci

A Ridley Scott non interessa mettere in scena una fedele ricostruzione di ciò che è o di ciò che è stato. Al netto di qualche eccezione (Thelma & Louise, American GangsterNessuna verità) il nostro ha sempre raccontato il mondo allontanandosene e spaziando addirittura in altre epoche o in altri pianeti. La storia è sempre una pagina bianca, da riempire in base alle sue necessità. House of Gucci non fa eccezione, spronandoci continuamente a prendere atto del fatto che l’attinenza di ciò che vediamo su schermo con la realtà è scarsissima. Il regista evidenzia il suo modus operandi fin da subito, ambientando il primo incontro fra Patrizia Reggiani e il rampollo della famiglia Gucci nel 1978, quando i due erano invece sposati da ben 6 anni.

La prima di una lunga serie di distorsioni della realtà, che abbraccia la musica (l’inclusione nella soundtrack de La ragazza col maglione di Pino Donaggio e Sono bugiarda di Caterina Caselli, rispettivamente datate 1962 e 1967), la geografia italiana (luoghi di Milano continuamente scambiati con altri di Roma) e si spinge fino alla stessa biografia dei protagonisti, con la cancellazione dal racconto della nascita della seconda figlia della coppia, Allegra. Ma a esplicitare la natura più intima dell’operazione sono soprattutto i personaggi, che gli interpreti spingono ben oltre i limiti del macchiettistico.

Dal Paolo Gucci di Jared Leto, grottesco artista fallito e incredibilmente ingenuo uomo d’affari, passando per suo padre Aldo (un Al Pacino che gioca apertamente con il suo passato nella saga de Il padrino), fino ad arrivare all’uomo che li scalzerà dal trono di una delle più prestigiose case di moda, cioè Maurizio Gucci, che Adam Driver caratterizza prima con totale passività e poi con spregevole cinismo: una galleria di relitti umani, simboli di una famiglia disfunzionale che procede spedita verso l’autodistruzione.

Lady Gaga: il falso dentro il falso

In questa celebrazione dell’artificioso e della falsità, spicca la scheggia impazzita di Patrizia Reggiani, che lentamente mina dalle fondamenta l’impero dei Gucci, innescando il processo che porterà l’azienda ad allontanarsi definitivamente dalle mani di chi l’ha creata. Lady Gaga in House of Gucci è il falso dentro il falso, quindi paradossalmente la quintessenza del vero, solo parzialmente sporcata da un impresentabile accento italiano che, insieme agli omaggi musicali a Luciano Pavarotti e Giacomo Puccini, contribuisce alla folcloristica rappresentazione dell’Italia. Con una performance di segno opposto alla fragile naturalezza mostrata in A Star Is Born, la pop star si mangia letteralmente il film, illuminandolo con sguardi incendiari alternati a sordide macchinazioni, mascherate da cortesie. In bilico fra bieco arrivismo e metafora dell’emancipazione femminile, la sua Patrizia Reggiani è una burattinaia che si schianta a terra insieme ai suoi burattini, simbolo della fragilità di un mondo fondato sull’apparenza.

La sua stessa parabola esistenziale è un inno al più fiero e consapevole trash: il suo stretto rapporto con la sensitiva e futura complice Pina Auriemma (Salma Hayek, che nella vita reale è la moglie di François-Henri Pinault, CEO del gruppo Kering che controlla attualmente Gucci: riuscite a immaginare una scelta di casting più provocatoria?), la sua rovinosa caduta e il contatto con i sicari a cui affiderà l’incarico di uccidere il marito, in una scena che sarebbe stata perfetta per una parodia di quart’ordine di un gangster movie. Ulteriori tasselli di un mosaico che celebra il disfacimento del lusso e dello sfarzo, lentamente sepolti da una coltre di incompetenza, imbrogli e inaffidabilità.

House of Gucci: una tragicomica operetta shakespeariana

House of Gucci

A voler ben guardare, il senso di House of Gucci sta tutto nel sagace passaggio in cui Patrizia Reggiani scopre prima il giro di contraffazione dei capi Gucci, per poi rendersi conto, imbeccata dallo zio del marito, che anche questo sottobosco di emulazione contribuisce agli affari della famiglia. Una presa di coscienza che implicitamente inserisce anche la stessa Patrizia, da sempre dedita alla falsificazione di se stessa e del marito in ottica speculativa, in uno schema di squallore e decadenza, inevitabilmente destinato a divorare se stesso.

Con questa tragicomica operetta shakespeariana, Ridley Scott ragiona allo stesso tempo sull’industria (cinematografica e non), sempre più lontana dalle grandi dinastie e dal loro bagaglio di esperienza umana e lavorativa, sempre più direzionata verso i grandi gruppi e le loro fini operazioni di marketing e rebranding. Esplicativa in questo senso è proprio la didascalia finale, che con amara lucidità ci ricorda che nessun membro superstite della famiglia Gucci è attualmente coinvolto nell’azienda. Grandi gruppi che con abili colpi di mano sottraggono aziende familiari dai legittimi proprietari, approfittando della loro posizione di forza e della fragilità di una generazione ormai superata: sotto quintali di trucco prostetico, svariati siparietti di imbarazzante miseria umana e una messa in scena che ci porta costantemente fuori dal racconto, Ridley Scott riesce nuovamente a fare cinema politico e pungente, parlando ancora del presente attraverso il racconto di un artefatto passato.

House of Gucci: il funerale di un’epoca

House of Gucci

In questo circo di maschere discordanti, Ridley Scott centellina anche momenti di grande cinema, come i battibecchi fra Paolo e Aldo Gucci (quasi una rivisitazione del rapporto fra Fredo e Michael Corleone) e il mortifero dialogo fra Patrizia Reggiani e l’amante di Maurizio. Sprazzi di luce che, proprio come avviene nella dimora di Rodolfo Gucci, simulacro di un passato che non esiste più, illuminano un’opera dominata dall’oscurità e dalla mestizia, da cui non si salva nessuno. Non stupiscono quindi le dure e ripetute prese di posizione contro House of Gucci da parte dei reali protagonisti della vicenda, che accusano Scott di scarsa aderenza alla realtà.

Come Martin Scorsese in The Irishman, il regista britannico ha dato vita, senza nessun compromesso, a una cerimonia funebre di un’epoca, di un modo di fare affari e di un approccio all’immagine, infischiandosene totalmente del settore a cui appartengono i suoi protagonisti (la moda) per concentrarci su miseri e altamente simbolici ritratti umani. Forse tutto questo non basta a soddisfare tutti, ma per quanto ci riguarda è sufficiente per affermare che possiamo ancora contare su un grande autore, capace di raccontare il contemporaneo con opere che lasciano sempre l’amaro in bocca e la sensazione di essere stati colpiti dove fa più male.

House of Gucci è nelle sale italiane dal 16 dicembre, distribuito da Eagle Pictures.

Overall
8/10

Verdetto

Ridley Scott mette in scena il funerale di un’epoca e di un modo di approcciarsi all’industria, dando vita a un racconto che rifiuta categoricamente il realismo per concentrarsi sulla miseria umana dei propri protagonisti, simboli di un mondo che non esiste più.

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